Giudice Rosario Livatino reliquia, un uomo straordinario che tanti conoscono, ma che pochi sanno quanto fosse incredibile come giudice ma soprattutto come persona. La sua reliquia è a Roma da un giorno e comincerà il suo cammino per la città, la pelegrinatio partirà alla Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, poi andrà alla Camera e al Senato. Il 18 gennaio sarà all’Università Niccolò Cusano.

Molti di coloro che ricordano Rosario Livatino nel giorno della sua scomparsa riportano questa frase trovata tra i suoi appunti: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.

Una frase che simbolicamente raccoglie tutta la sua vita, perché “il giudice ragazzino”, scrive in modo integrale “Antimafia Fondatore Giorgio Bongiovazzi” fu credente e credibile dall’inizio alla fine e la sua storia rappresenta davvero un esempio non solo per tanti giovani magistrati, ma anche per tutti quei cittadini onesti che credono nei valori di giustizia ed uguaglianza di fronte alla legge.

Giudice Rosario Livatino reliquia. La vita e la fede

Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre del 1953, figlio di Vincenzo Livatino, impiegato nell’esattoria comunale e di Rosalia Corbo; a diciotto anni nel 1971 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo seguendo le orme paterne e laureandosi con la lode il 9 luglio 1975 a soli ventidue anni.

Che fosse un uomo di fede profonda è fuori dubbio. Nella sua agenda del 1978, ad esempio, si legge un’invocazione che consacra tutta la sua vita: “Oggi ho presentato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”, queste sono le parole che Livatino scrisse dopo il suo ingresso in magistratura, un’invocazione al Divino affinché lo aiutasse a compiere il proprio dovere fino alla fine, senza nessun tipo di remora.

Nel 1979 Livatino operò presso il Tribunale di Agrigento come sostituto procuratore fino al 1989, in quel periodo portò avanti con rigore e professionalità indagini complesse e delicatissime sulle organizzazioni criminali mafiose nonché su diversi episodi di corruzione dove erano coinvolti elevati esponenti della politica, ciò che ne consegui fu un terremoto politico che prese il nome di “Tangentopoli Siciliana”.

Livatino non si fermava davanti a nulla

Il giudice essendo privo di condizionamenti e avendo sempre come guide primarie la sua fede e il suo giuramento non ebbe remore a chiedere conto anche ad amministratori e politici del loro operato. Tanto che fu tra i primi ad interrogare un ministro dello Stato.

Avvenne nel 1984 quando raccolse a verbale le dichiarazioni, come persona informata sui fatti, del più volte ministro democristiano, Calogero Mannino, politico la cui posizione è sempre stata controversa.

Tenuto conto della giovane età e del lavoro che stava conducendo è facile pensare che il futuro del giovane magistrato sarebbe potuto essere di grandissimo spessore sul piano professionale. Proprio per il suo impegno ma la mafia, in questo caso la Stidda, decise di porre fine alla sua vita.

Era mattina presto quel venerdì 21 settembre 1990, esattamente trent’anni fa, il giudice a bordo della sua Ford Fiesta color rosso amaranto stava andando a lavorare in tribunale percorrendo la vecchia statale 640 che collegava Agrigento a Caltanissetta, con lui nessuna scorta, quando all’altezza di Contrada Gasena la sua auto venne intercettata da quattro sicari assoldati dalla Stidda di Canicattì e Palma di Montechiaro.

Il commando di fuoco entrò in azione, fu questione di attimi, l’auto dei sicari si affiancò a quella del giudice e aprirono il fuoco, il giudice cercò di salvarsi tentando la fuga attraverso la campagna ma venne raggiunto dal suo assassino: “Perché? Che cosa ho fatto?” chiese il magistrato ormai senza forze ma Gaetano Puzzangaro non rispose e sparò.