È stata diffusa dalla Bbc, nelle scorse ore, una lettera scritta dall’attivista iraniana Sepideh Qolian, detenuta nel carcere di Evin, a Teheran, dopo essere stata condannata a cinque anni per aver agito “contro la sicurezza nazionale” dopo aver sostenuto uno sciopero indetto nella provincia iraniana del Khuzestan, quattro anni fa. La donna ha raccontato di essere stata torturata per ore e presa a calci con l’intento di estorcerle una confessione. È quello che starebbe accadendo anche ai dissidenti imprigionati nel corso delle proteste in atto nel Paese, seguite alla morte di Masha Amini, la ragazza uccisa per non aver indossato correttamente il velo.
La testimonianza dell’attivista iraniana detenuta a Teheran
L’attivista iraniana per i diritti umani Sepideh Qolian, detenuta a Teheran dopo essere stata arrestata nel corso di alcune proteste, ha denunciato in una lettera le ‘brutali’ modalità utalizzate dalle autorità del regime per estorcere ai detenuti le confessioni. “Nel quarto anno della mia prigionia posso finalmente sentire i passi della liberazione da tutto l’Iran – scrive la donna, riferendosi alle manifestazioni anti-governative scoppiate nel Paese -. Gli echi di ‘Donna, vita, libertà’ possono essere ascoltati anche attraverso le spesse mura della prigione di Evin”. All’interno del carcere, l’ala che descrive come “culturale”, quella dove sostiene gli esami di un corso di laurea in Legge, è stata trasformata in un’area destinata a “torture e interrogatori”, a cui lei stessa ha assistito.
Il riferimento è, in particolare, a un episodio avvenuto lo scorso 28 dicembre. “Faceva freddo e nevicava. Vicino alla porta di uscita dell’edificio c’era un ragazzino bendato, che indossava una sottile maglietta grigia, seduto davanti ad un inquirente. Tremava e supplicava, ripeteva che non aveva picchiato nessuno, ma l’altro voleva che confessasse”. Stando ai dati diramati dall’agenzia di stampa degli attivisti per i diritti umani (Hrana), dall’inizio delle proteste contro il regime, lo scorso settembre, circa 519 persone – tra cui 69 bambini – sarebbero state uccise e più di 19mila arrestate. Di queste, a decine rischierebbero la pena di morte, mentre altre sono già state impiccate. Affermazioni negate dalle autorità, ma confermate in molti casi dai dissidenti detenuti.
I comportamenti sarebbero gli stessi usati in seguito all’arresto di Qolian, nel 2018. “Mi ha interrogato una donna – ha raccontato -, credevo che sarebbe stato meglio, almeno non mi avrebbe aggredito sessualmente. Invece, mi ha preso a calci la gamba e ha gridato ‘tu putt**a comunista, con chi sei andata a letto? Scrivilo su questo foglietto'”. A quel punto sarebbero iniziate le torture. “I suoni della tortura sono continuati per ore o forse un giorno, ho perso la cognizione del tempo”, ha scritto ora. Alla fine, secondo il suo racconto, sarebbe stata costretta, pur di mettere fine alle violenze, a confessare un crimine che non aveva commesso.
I dissidenti imprigionati nel corso delle proteste in atto: “Costretti a violentarci tra noi”
Qualche settimana fa, a denunciare le violenze delle autorità del regime nei confronti dei dissidenti imprigionati erano state due persone precedentemente detenute. “Si comportano meglio con gli animali che con noi – aveva testimoniato Ali (nome di fantasia), tassista 42enne arrestato mentre partecipava alle proteste presso l’Università di Isfanah -. C’era un uomo molto alto, con un passamontagna. Non faceva che insultarci e picchiarci. Ci portavano in una stanza e ci riempivano di botte, ci minacciavano e ci ordinavano di violentarci a vicenda. Sul soffitto, una telecamera che riprendeva tutto”. Secondo quanto riferito dall’Human Rights Monitor, una Ong con sede a Londra – che ha parlato di “uso sistematico degli stupri nelle carceri” sia sugli uomini che sulle donne – si tratterebbe di éscamotage usati per poter ricattare i manifestanti e spingerli a dichiarare il falso. Racconti atroci, che comunque non fermano gli attivisti.