Negli Stati Uniti, è stato approvato dalla Fda, l’agenzia regolatoria degli Usa, un farmaco per rallentare (ma non fermare) la progressione dell’Alzheimer, il Leqembi. Il medicinale è prodotto dalle aziende Eisai e Biongen. La procedura che ha portato al via libera è stata accelerata e per questo i produttori dovranno condurre ancora altri studi.
Il farmaco costerà 26.500 dollari l’anno a persona. “Questa opzione di trattamento è l’ultima a prendere di mira il processo sottostante dell’Alzheimer, invece che curare i sintomi della malattia”, afferma Billy Dunn della Food and Drug Administration.
Da anni si cerca un modo per contrastare la malattia neurologica degenerativa, che solo negli usa colpisce circa 6,5 milioni di persone. Il nuovo medicinale, si spiega “rallenta in modo modesto” la progressione del problema. Anche se può avere effetti collaterali importanti i cui rischi sul singolo paziente devono essere valutati con attenzione dal medico. Si tratta dunque di un progresso ma non di un farmaco destinato a cambiare la storia di una delle malattie più diffuse al mondo.
Usa farmaco per rallentare Alzheimer: si potrebbero guadagnare alcuni mesi
L’approvazione è per i pazienti che hanno una forma ancora leggera o comunque iniziale di Alzheimer. Il rallentamento dei problemi cognitivi sarebbe di alcuni mesi ma alcuni esperti dicono che comunque può migliorare la vita delle persone in modo importante.
“Questa medicina non blocca il peggioramento delle persone, ma rallenta la progressione, spiega Joy Snider, neurologo alla Washington University di St. Loius, questo significa che qualcuno dei trattati potrebbe essere in grado di guidare per sei mesi in più”.
Fda ha utilizzato la procedura accelerata perché si sono visti risultati positivi dai primi studi ma le aziende devono andare avanti nel lavoro. Dall’agenzia statunitense spiegano che l’efficacia “è stata valutata in uno studio a doppio cieco controllato con il palcebo”. I pazienti valutati sono stati 856 e si è valutata la presenza di placche amiloidi cerebrali, tipiche di chi è colpito da questo problema.
Riguardo ad un’eventuale approvazione in Italia, bisogna prima che si muova l’Europa. Le aziende produttrici hanno probabilmente già presentato un dossier all’Ema o comunque lo faranno a breve. A quel punto bisognerà aspettare la valutazione dell’agenzia continentale e poi di quella italiana, Aifa.
I dubbi della comunità scientifica
L’approvazione del nuovo farmaco non arriva tuttavia senza polemiche e dubbi da parte della comunità scientifica. Diversi esperti sostengono che non sia chiaro, in base alle prove mediche, se Leqembi possa effettivamente rallentare il declino cognitivo in misura significativa tale da essere utile ai soggetti affetti dal morbo anche in rapporto al suo notevole costo.
Nello studio più ampio condotto da Eisai, sono stati monitorati i risultati dei pazienti su una scala di 18 punti che misura la memoria, il giudizio e altre capacità cognitive. Dopo 18 mesi, i pazienti che hanno ricevuto Leqembi hanno registrato un calo cognitivo più lento di mezzo punto sulla scala di 18 rispetto ai pazienti che hanno ricevuto un’infusione fittizia. Che dovrebbe significare un ritardo nella degenerazione cognitiva pari a poco più di cinque mesi.
“La maggior parte dei pazienti non noterà la differenza”, ha affermato il dottor Matthew Schrag, ricercatore in neurologia presso la Vanderbilt University. “Parliamo di un effetto piuttosto piccolo e probabilmente al di sotto della soglia di ciò che definiremmo clinicamente significativo”.
Schrag e alcuni altri ricercatori ritengono che un miglioramento significativo richiederebbe almeno una differenza di un punto intero sulla scala a 18 punti.
Il professor Snider ha poi anche sottolineato che il farmaco comporta qualche disagio, inclusa la necessità di infusioni due volte al mese e possibili effetti collaterali come il gonfiore del cervello.
“I pazienti a maggior rischio di sanguinamento durante il trattamento con Leqembi sono quelli che assumono fluidificanti del sangue o medicinali usati per prevenire l’ictus”, ha affermato il dottor Sam Gandy del Mount Sinai Hospital.