La differenza degli stipendi tra uomo e donna in Italia rappresenta ancora un problema di non facile soluzione. Dal dato (che è il più evidente ma riguarda solo uno degli ambiti in cui si manifesta il gender gap) fornito dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Jobpricing, emerge che in Italia è come se le lavoratrici iniziassero a esser pagate l’11 febbraio, pur lavorando regolarmente dal primo gennaio. Nel 2021, infatti, il pay gap calcolato sulla retribuzione annua lorda nel settore privato è stato dell’11,2 percento (3.500 euro) e si sale al 12,2 percento (3.800 euro) comprendendo la parte variabile. “Nonostante la ripresa dell’occupazione, le buone notizie per le parità di genere tardano ad arrivare”, commenta Nicole Boccardini di IDEM, start-up Universitaria partecipata da Fondazione Marco Biagi e dalla stessa JobPricing, che si occupa di misurazione e certificazione della parità di genere. Il differenziale retributivo “è in lieve peggioramento rispetto al 2020”: di un punto percentuale. “D’altra parte, i fattori che determinano il pay gap, come il livello di istruzione, i percorsi di studio, i percorsi di carriera, l’area funzionale o il settore in cui si lavora spiegano solo una parte del più ampio problema del gender gap”.
La differenza degli stipendi tra uomo e donna in Italia: le cause, i settori più penalizzati e le norme a riguardo
Affinchè le aziende abbiano chiara la loro situazione su questi aspetti, molte volte neppure indagati, sono stati potenziati diversi strumenti normati nella cosiddetta legge Gribaudo del 2021. Tra questi, figura l’obbligo di redigere un rapporto biennale sulla composizione della forza lavoro che è stato esteso alle aziende con 50 dipendenti, dai 100 precedenti, con informazioni più dettagliate anche riguardo ai processi di selezione, policy e garanzie. Entro la scadenza del 14 ottobre scorso, al ministero sono arrivate poco meno di 30mila rendicontazioni e ora è in atto la complessa fase di analisi. Accanto a questo, la revisione del Codice delle Pari opportunità ha previsto incentivi per chi si certifica su questi temi. Un Dpcm ha fissato in primavera le sei aree di analisi per ottenere la pagella: cultura e strategia; governance; processi hr; opportunità di crescita e inclusione; equità remunerativa; tutela della genitorialità e conciliazione vita lavoro. L’obiettivo è quello di incentivare le imprese a certificare che nella loro organizzazione non ci siano discriminazioni di genere. Una prassi che inizia a entrare nelle stanze del comando delle aziende italiane, vuoi perché ora ci sono sgravi contributivi a supporto di questa scelta, vuoi perché si fa strada una maggiore consapevolezza dettata anche da esigenze di reputazione. Nello specifico, sono arrivati prima il decreto del Ministero del Lavoro e quindi le istruzioni Inps per ottenere gli sgravi contributivi offerti a chi si sia certificato entro la fine dell’anno, insieme ad altri vantaggi, quali un punteggio preferenziale nei bandi di gara della Pa. L’incentivo vale l’1% di esonero contributivo nel limite di 50mila euro a datore di lavoro (privato, azienda o professionista). Lo stanziamento complessivo, stabilizzato anche per gli anni a venire, è di 50 milioni. Negli ultimi tempi sono arrivati diversi annunci da parte di aziende che hanno deciso di agire direttamente per colmare il pay gap tra uomo e donna e ottenere una patente di equità riconosciuta. Poste Italiane ad esempio ha incassato la certificazione Equal-Salary; a inizio dicembre Intesa Sanpaolo ha comunicato di esser il primo grande gruppo bancario a concludere positivamente il processo di valutaizone con Bureau Veritas, stessa società che si è occupata anche della certificazione di Autostrade per l’Italia annunciata pochi giorni fa. Take Off, società di commercio d’abbigliamento, ha preso il ‘patentino pochi giorni prima di Natale, Coca Cola o Edenred sono altri esempi dell’anno. Buon segno, ma ovviamente non basta: se alla base della piramide c’è una certa presenza di genere, deve esserci anche alla cima. Per alcuni osservatori come il sistema premiale dei contributi è positivo perché non rincorre le aziende per metterle all’angolo, ma stimola una sana competizione. Anche perché l’aspetto reputazionale, su questi temi, sta diventando sempre più importante.