L’andamento del costo del lavoro in Italia, stando ai dati resi noti dall’Eurostat, ufficio statistico dell’UE, ha subìto un balzo deciso dopo la pandemia. Nel 2020, il costo del lavoro dipendente è cresciuto dai 28.8 euro l’ora del 2019 a 29.7. Almeno nel settore privato. È poi diminuito nel 2021 portandosi a 29.3, ma rimanendo a un livello maggiore di quello precedente al Covid. Tuttavia occorre fare una precisazione: Eurostat, infatti, non considera occupazione i periodi molto prolungati di cassa integrazione. Osservando come siano stati soprattutto i lavoratori dei settori più fragili ad essere penalizzati dalle coseguenze della pandemia, è facile capire come la porzione di forza lavoro rimasta ad alimentare queste statistiche sia quella con remunerazioni migliori. Da qui il balzo. E da qui anche la discesa del 2021, quando sono tornati ad occuparsi molti addetti di settori molto colpiti dalla pandemia come la ristorazione o il turismo, che sono anche interessati da stipendi non particolarmente elevati. E nonostante il costo del lavoro risulti essere tra i più alti in Europa, lo stesso non si può dire dei salari italiani che non solo risultano essere tra gli ultimi in classifica, ma sono diminuiti negli ultimi 30 anni (12 percento in meno rispetto al 2008 in termini reali).

Costo del lavoro in Italia: cos’è e come si calcola.

Intanto, chiariamo in parole semplici, che cosa intendiamo con costo del lavoro: è il costo a carico del datore di lavoro. Dobbiamo, quindi, considerare i contributi, le tasse e altre voce più piccole oltre allo stipendio vero e proprio. L’andamento del costo del lavoro è infatti determinato anche dalle imposte, le tasse sui redditi che gravano sui lavoratori e sui datori di lavoro e i contributi. La differenza tra il costo di un dipendente per l’azienda e quanto il dipendente stesso incassa in busta paga è chiamato “cuneo fiscale” anche se, in realtà, a erodere il reddito non è solo il fisco ma decine e decine di voci diverse. Questa differenza è comunemente calcolata al 210 percento: significa che se il dipendente incassa, per esempio, mille euro netti al mese, l’impresa ne ha sborsati 2.100. Ovviamente nel caso di un contratto regolare a tempo determinato o indeterminato (il cuneo fiscale è identico in entrambi i casi). Attenzione, però, questo 201 percento non è frutto di un calcolo preciso, è piuttosto un dato convenzionale che comprende i costi che l’azienda deve sostenere come, per esempio, i costi amministrativi, quelli bancari e quelli del consulente del lavoro esterno che prepara le buste paga.

I dati in Italia e negli altri Paesi UE

Nel 2021 l’Italia , con il 28.3 percento, era terza in Europa quanto a percentuale del costo del lavoro riconducibile alla tassazione. Solo in Svezia e Francia le tasse sul lavoro sono più alte, arrivando rispettivamente al 32 percento e al 31,9 percento. Il cuneo fiscale in Italia è sceso di 1,91 punti percentuali tra il 2019 e il 2020, attestandosi al 46 percento per un lavoratore medio single senza figli. È invece la Danimarca il Paese in cui il costo del lavoro è maggiore, con 46,9 euro all’ora, secondo i dati del 2021. È seguita da Lussemburgo, Belgio, Svezia. Al quarto posto con 38,3 ci sono i Paesi Bassi, che superano la Francia, con 37,9. In Germania i lavoratori costano mediamente 37,2 euro ogni ora, con un aumento rispetto al 2008 del 33,3 percento. L’Italia è all’undicesimo posto, davanti alla Spagna, dove il costo del lavoro è di 22,9 euro all’ora, decisamente inferiore al nostro. Non solo per gli stipendi più bassi, ma anche per la minore tassazione. Nonostante dunque il balzo del 2020, che tra l’altro ha interessato più l’Italia che altri Paesi, l’andamento del costo del lavoro è stato decisamente meno positivo che altrove. Tipicamente sono stati i Paesi dell’Est, quelli che partivano da livelli di reddito e anche di stipendi più bassi, e che hanno visto crescite del Pil molto superiori alla media europea, ad avere anche incrementi del costo del lavoro più alti.