Rogo Thyssenkrupp, sono passati 15 anni. Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 sette operai perseroro la vita in seguito allo scoppio di un incendio in un capannone dell’impianto siderurgico torinese. Oggi, in occasione dell’anniversario della strage, l’appello dei familiari delle vittime nel corso delle commemorazioni tenutesi a Torino presso il memoriale a loro dedicato al cimitero Monumentale: “Siamo rimasti senza giustizia”.

Rogo Thyssenkrupp: dall’incidente al processo

È la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 quando nell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino scoppia un incendio. Sette operai, di età compresa tra i 16 e i 54 anni, muoiono nel giro di 24 giorni. Solo uno dei lavoratori coinvolti, Antonio Boccuzzi, sopravvive al rogo. Tutto inizia pochi minuti dopo l’una di notte, nel capannone della linea 5, dove lavorano gli addetti alla ricottura e al decapaggio: una colata di olio bollente prende fuoco e investe tutta la struttura in poco tempo, rendendo vano l’intervento dei vigili del fuoco, giunti immediatamente sul posto per domare le fiamme e tentare di salvare i lavoratori. A causare l’incidente, come si scoprirà più tardi, è un irregolare scorrimento del nastro: la carta imbevuta di olio usata per proteggerlo era rimasta incastrata nella macchina, insieme a sporcizia e segatura, non permettendole di funzionare nel modo adeguato e producendo quindi delle scintille, a causa dell’attrito. Nascono così delle fiamme, che danneggiano a loro volta un tubo dell’impianto idraulico, da cui esce altro olio, che si incendia.

Una reazione a catena, insomma: alle 4 di mattina si conta la prima vittima, Antonio Schiavone, deceduto in ospedale poco dopo il ricovero; nei giorni successivi si aggiungono alla triste lista anche Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino, tutti morti a causa delle ustioni riportate in seguito all’incendio. Inizia così una lunga vicenda giudiziaria, che punta il dito contro le condizioni di lavoro all’interno dello stabile e la mancanza di misure di sicurezza adeguate. A parlare è l’unico supersiste della strage. Voci smentite dai vertici aziendali, che parlano di un’unica responsabilità, quella degli operai, che erano “distratti”, o comunque di “errori” legati a “circostanze sfavorevoli”. Le aule del processo vero e proprio si aprono nel 2009; alla fine, ad essere condannato è Herald Espenhahn, amministratore delegato dell’azienda tedesca, condannato a 16 anni e 6 mesi di reclusione per i reati di omicidio volontario e di incendio doloso, entrambi con il dolo eventuale, insieme ad altri cinque manager. L’altro capo di imputazione è omissione dolosa di sistemi di prevenzione.

Ma non è finita, perché si passa all’Appello. I giudici del secondo grado di giudizio, nel 2013, riqualificano il reato compiuto da Espenhahn: non omicidio doloso, ma colposo, riducendo la pena a 10 anni. Alla fine, in Cassazione, Espenhahn viene condannato a 9 anni e 8 mesi; gli altri a una pena che va dai 7 anni e mezzo ai 6 anni e 3 mesi. Nel frattempo, i familiari delle vittime ricevono poco meno di 13 milioni di euro dalla Thyssenkrupp, a patto di non costituirsi come parte civile nel processo penale. Ma i colpevoli, pur condannati in via definitiva, non hanno mai scontato le loro pene, compreso Espenhan, che ha lamentato la violazione del “principio del giusto processo e del diritto al contraddittorio” davanti alla Corte costituzionale federale tedesca: durante il processo italiano, sostengono i suoi legali, mancava la traduzione in tedesco di alcuni documenti. La pena, in attesa di una decisione, è sospesa.

Sono passati 15 anni e le famiglie delle vittime aspettano che giustizia sia fatta

Si sono tenute questa mattina, a Torino, le commemorazioni in ricordo delle vittime, a 15 anni dalla loro scomparsa. “Io vivo da 15 anni l’assenza di mio figlio – ha detto Rosina Platì, mamma di Giuseppe Demasi, uno degli operai coinvolti nel disastro -, 15 anni che non sono stati sufficienti per portare a compimento un percorso giudiziario. Abbiamo capito quanto faccia male la negazione del diritto”, aggiunge, parlando di “sentenze inapplicate, inutili impegni, principi farlocchi, tribunali inefficaci e ministri che ci avevano assicurato che avrebbero vigilato ma poi si sono limitati ad ascoltarci più per dovere istituzionale che per altro. 15 anni di una giustizia ingiusta e priva di credibilità. Il nostro processo avrebbe dovuto essere uno spartiacque, ma ancora ogni giorno si reclama sicurezza nei luoghi lavoro”. Parole condivise anche dai familiari delle altre vittime, che si aspettano che la giustizia venga applicata.