Si chiama Lecanemab il farmaco che rallenta l’Alzheimer. Parliamo di un anticorpo monoclonale il quale, se assunto nelle prime fasi della malattia, renderebbe il decorso più lento. È quanto emerge dai risultati di un trial clinico condotto da alcuni scienziati della facoltà di medicina dell’Università di Yale ed apparso sul New England Journal of Medicine il 29 novembre. Lecanemab agisce sulla Betamiloide, una proteina che accumulandosi nel cervello si associa a questa malattia neurodegenerativa. Il processo comincia 20 anni prima che vengano rilevati i primi sintomi: il farmaco che rallenta l’Alzheimer, infatti, comunica col sistema immunitario il quale prende così di mira la Betamiloide, impedendogli di aggregarsi tra i neuroni formando le caratteristiche placche dell’Alzheimer. La Betamiloide è una proteina che si trova nella membrana grassa che circonda le cellule nervose ed ha un ruolo importante nella crescita e riparazione dei neuroni (cellule del cervello). E’ considerata una, se non la principale, causa dell’Alzheimer. Al momento i farmaci lavorano sui sintomi, senza intaccare il decorso.
Il farmaco che rallenta l’Alzheimer: come e cosa dicono i dati
La ricerca – finanziata dalle case farmaceutiche Eisai e Biogen e che ha coinvolto 1795 volontari – prevedeva che i pazienti tra 50 e 90 anni dovevano ricevere in maniera casuale il farmaco o un placebo. L’obiettivo principale era quello di riuscire a ottenere una variazione significativa nella sintomatologia dopo 18 mesi di trattamento e, alla fine dello studio, è stato riscontrato un rallentato di un quarto del tempo nel decorso della malattia. Ora il problema è quello di valutare il bilancio tra benefici e potenziali eventi avversi. Leggendo le conclusioni del rapporto, il Lecanemab ha sì ridotto i marcatori di amiloide nella malattia di Alzheimer precoce provocando un declino moderatamente inferiore delle misure cognitive e funzionali rispetto al placebo a 18 mesi, ma è anche stato associato a eventi avversi. Sono necessari dunque studi più lunghi per determinare l’efficacia e la sicurezza del farmaco nella fase iniziale della malattia. I ricercatori hanno valutato il declino della malattia sulla base dei sintomi con una scala a punti da 0 a 18 e il miglioramento, per chi ha assunto il farmaco, è stato riscontrato in un incremento pari a 0,45, tanto che alcuni esperti hanno parlato di effetti modesti anche se il farmaco fornirebbe comunque un appoggio.
L’importanza della diagnosi precoce
I miglioramenti osservati nello studio – che riducono i tempi di declino cognitivo di un quarto -, rappresenterebbero quindi 19 mesi in più di vita indipendente. Va ricordato comunque che questi risultati valgono solo per chi viene diagnosticato precocemente. Da qui l’importanza della diagnosi in fase iniziale, che avviene attraverso l’analisi dei livelli di Betamiloide e Tau. La prima è tendenzialmente bassa nei pazienti con Alzheimer, perché probabilmente rimane intrappolata nelle placche; la seconda invece risulta essere alta perché sta nei neuroni, che quando muoiono la rilasciano nel liquido. Questo genere di analisi, dunque, permette di diagnosticare la malattia anche in un soggetto ancora asintomatico, permettendo di rallentarne il decadimento mentale.
Alcuni dati
È importante sottolineare come nella migliore delle ipotesi il farmaco rallenta il decorso della malattia. Ma né la blocca né tanto meno la guarisce. Ad oggi, infatti, non esiste una cura definitiva contro l’Alzheimer, una patologia neurodegenerativa che affligge milioni di persone nel mondo. Solo in Italia i pazienti sono oltre 1,2 milioni, che si stima diventeranno 1,6 milioni entro il 2030. Nel 60/70% dei casi a soffrire di Alzheimer sono i soggetti più anziani (a partire dai 65 anni), ma può avere anche un esordio giovanile. I ricercatori invitano pertanto alla cautela. Tuttavia, dopo tanti fallimenti, questi risultati lasciano un po’ di speranza e suggeriscono un cauto ottimismo.