Che cos’è la sindrome di Stoccolma e perché si chiama così? Si tratta della particolare condizione psicologica che induce le vittime di un rapimento a provare un sentimento positivo verso il proprio aggressore, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottimissione volontaria. L’espressione fu coniata dal criminilogo e psicologo Nils Bejerot per definire questa reazione emotiva al trauma paradossale, osservata per la prima volta in un caso di sequestro avvenuto nel 1973 proprio a Stoccolma.

Che cos’è la sindrome di Stoccolma?

La condizione psicologica conosciuta come sindrome di Stoccolma è una reazione emotiva al trauma che si sviluppa automaticamente a livello insconscio nella vittima e la porta a provare simpatia verso il suo aggressore e antipatia verso le autorità governative preposte al salvataggio. Pur non essendo riconosciuta tra le malattie psichiatriche e non richiedendo particolari terapie, è stata più volte osservata nei casi di sequestro ed è frequentemente usata in criminologia per riferirsi a queste situazioni paradossali, in cui le vittime di rapimento possono addirittura finire per instaurare con il proprio aggressore una sorta di sodalizio.

Le cause che porterebbero allo sviluppo della sindrome non sono ancora note, ma diversi studi hanno dimostrato che i fattori determinanti sarebbero quattro: lo sviluppo, da parte dell’ostaggio, di sentimenti positivi nei confronti del proprio sequestratore; la mancanza di una relazione precedente tra i due soggetti; lo sviluppo, sempre da parte dell’ostaggio, di sentimenti negativi nei confronti delle autorità predisposte alla cattura del rapitore e la sua fiducia nei confronti di quest’ultimo. Ad avere un impatto sulla psiche della vittima sarebbero, in particolare, gli atti di gentilezza da parte dell’aggressore, come il fatto di garantirle del cibo o la possibilità di utilizzare i servizi igienici. In questo modo, l’ostaggio finirebbe per sorvolare sulla sua condizione e sulla privazione della sua libertà, tendendo a vivere una situazione di isolamento dal mondo esterno anche emotiva e quindi di avversione nei confronti di tutti coloro che vengono da fuori, anche potenziali salvatori.

Ma da dove viene questa espressione?

A coniarla, nel 1973, fu lo psicologo e criminilogo svedese Nils Bejerot per riferirsi alla condizione psicologica osservata nelle vittime di un famoso sequestro avvenuto a Stoccolma ad opera di Jan-Erik Olsson, un uomo di 32 anni che, appena evaso dal carcere dove era detenuto per furto, aveva tentato una rapina alla sede della Sveriges Kreditbanken di Stoccolma, prendendo in ostaggio tre donne e un uomo. Ollson aveva chiesto come riscatto la liberazione di un altro detenuto, Clark Olofsson; le autorità avevano acconsentito alle sue richieste, concedendogli addirittura un’automobile per la fuga, ma si erano rifiutati di garantirgli di fuggire insieme ai suoi ostaggi, che dovevano essere liberati.

La prigionia e la convivenza forzata delle vittime con il loro sequestratore era durata 130 interminabili ore, sei giorni al termine dei quali i malviventi si erano arresi. Le interviste psicologiche condotte in seguito al sequestro dimostrarono che gli ostaggi tendevano a temere più la polizia che gli stessi sequestratori; di fatti, una volta rilasciati, si erano abbracciati con loro e anche dopo avevano continuato a preoccuparsi della loro incolumità. Rintanati per giorni in un ambiente strettissimo, una sorta di lungo corridoio, largo poco più di 3 metri e mezzo, le vittime avevano sviluppato sentimenti positivi nei confronti dei propri rapitori, anche perché questi ultimi erano stati molto gentili con loro: Ollson aveva dato una giacca di lana a una delle donne per coprirsi dal freddo, calmandola dopo un brutto sogno.

Sono solo alcuni dei dettagli dei racconti fatti dalle vittime. Nel corso di un’intervista rilasciata al New Yorker dopo la vicenda, una di loro affermò che, sebbene fosse legata, aveva sentito una specie di gratitudine nei confronti di Olsson e Olofsson poiché le attenzioni ricevute da questi ultimi l’avevano indotta a pensare che, nonostante la circostanza, i due erano stati gentili. Opinione condivisa anche dagli altri ostaggi, che addirittura visitarono i loro rapitori in carcere, diventandone emotivamente debitori – come spiegarono gli psichiatri – per non esserne stati uccisi.