È il 2 novembre 1975. Il corpo di Pier Paolo Pasolini giace, senza vita, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, a Roma, quando, alle 6.30 circa del mattino viene rinvenuto da una donna. Ma si trova lì già da qualche ora, mostrando i segni evidenti di una morte violenta: nella notte, uno dei più grandi intellettuali italiani era stato assassinato. Solo qualche ora prima il poeta, scrittore, regista – tra i suoi tanti appellativi – aveva rilasciato una storica intervista al giornalista Furio Colombo, che gli aveva chiesto di darle un nome: “Siamo tutti in pericolo – aveva risposto lui -. Ecco il seme, il senso di tutto. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi, ‘Perché siamo tutti in pericolo'”, preannunciando il suo tragico destino.

2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini morte: sono passati 47 anni

Nato il 5 marzo 1922 a Bologna da un ufficiale di fanteria e una maestra, Pier Paolo Pasolini si appassiona fin da giovane alla poesia e alla letteratura, dedicandosi, dopo gli studi, all’insegnamento. Inizia a farlo a Casarsa, in Friuli, dove negli anni Quaranta vive con la madre e il fratello, poi morto partigiano; ma nel 1950 è costretto a trasferirsi a Roma, soprattutto per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia di “corruzione di minori” legata alla sua omosessualità, che gli costa anche l’espulsione dal Pci. Ma è nella Capitale romana che la sua vicenda biografica inizia ad identificarsi con quella agitata di un intellettuale impegnato e provocatorio.

Una voce fuori dal coro, la sua, che raggiunge il massimo del successo con “Ragazzi di vita”, pubblicato nel 1955 da Garzanti, il romanzo in cui rappresenta il mondo delle borgate della periferia romana, una realtà, quella del sottoproletariato e della vita violenta (dal nome di un altro dei suoi grandi romanzi), che non finirà mai di attrarlo e che, forse, gli è stata fatale. Ad ucciderlo, al termine di una vita vissuta sempre ai margini, sarà proprio uno dei suoi ragazzi di vita, un 17enne, Pino Pelosi, anche se il mistero non è mai stato risolto del tutto.

Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file – aveva detto nella sua orazione funebre, durante i funerali, Alberto Moravia, suo collega e amico –. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro. […] Poi abbiamo perduto anche un romanziere. […] Poi abbiamo perso anche un regista che tutti conoscono, no? […] Infine, abbiamo perduto anche un saggista. […]  Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo Paese, per lo sviluppo di questo Paese. Un’attenzione, diciamolo pure, patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto.

Iconica, in tal senso, anche la lettera in cui Oriana Fallaci lo ricorda, parlando della sua irrimediabile malinconia, della sua attrazione per il pericolo e per le difficili verità. “Sei stato tu a insegnarmi che bisogna essere sinceri anche a costo di sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi dicendo ciò in cui si crede – scriveva -, anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso. Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. […] Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?”.