In Sudan una ragazza di 20 anni è stata condannata alla lapidazione con l’accusa di adulterio. La sentenza di pena capitale era arrivata dopo un processo sommario e che presentava molte irregolarità di forma.
La notizia si è velocemente diffusa e ha smosso la coscienza di molte persone in tutto il mondo che stanno ora cercando di salvarle la vita attraverso la condivisione della sua storia e la sottoscrizione di una petizione su scala mondiale in suo favore. Nella descrizione dell’accaduto, le fonti ufficiali si riferiscono alla ragazza con il nome di fantasia Amal: il nome della ragazza è stato infatti di proposito modificato per proteggere la sua identità. La ventenne è attualmente detenuta in attesa che la corte d’appello decida il suo destino.
Si tratta del primo caso in Sudan di annuncio di pena per lapidazione dopo dieci anni.
Il rituale della lapidazione prevede che il condannato venga avvolto in lenzuolo bianco e seppellito fino al petto se è una donna, fino alla vita se è un uomo. La morte sopraggiunge poi a causa dei colpi inflitti scagliandogli pietre. È inoltre specificato che le pietre lanciate non devono essere troppo grandi e tali da uccidere il detenuto con un sol colpo.
La pena è applicata per punire adultere, prostitute, assassini e omosessuali in alcuni paesi musulmani, ed è infatti ancora praticata in Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan e Yemen. Il rito rappresenta la volontà di espiazione pubblica della presunta colpa da parte del condannato.
Sudan ragazza condannata alla lapidazione: la storia di Amal
Nel 2020 Amal si era separata dal marito ed era tornata a vivere a casa dei suoi genitori. La ragazza era quindi stata accusata di adulterio nel Giugno 2022 da un tribunale della città di Kosti, nello stato sudanese del Nilo Bianco. Nel processo che l’ha condannata a morte è stata utilizzata anche una confessione ottenuta illegalmente. Alla giovane oltretutto era stata negata la presenza di un avvocato difensore.
Nello stato del Sudan, durante la rivoluzione per la democrazia nel paese avvenuta circa tre anni fa, le donne si sono esposte con coraggio rivendicando i propri diritti ma oggi, dopo il colpo di stato militare che ha bloccato la svolta democratica, questi diritti vengono loro negati così come è di nuovo impedito loro di partecipare alla vita pubblica.
Ed è proprio la precaria condizione politica all’interno del Sudan ad essere il maggior ostacolo per la pacifica risoluzione della vicenda. Gli attivisti infatti denunciano che tutti gli sforzi per mediare con il governo militare sono ostacolati dall’assenza di ministri nel Paese.
Pare che proprio un funzionario del governo sudanese abbia convenuto che il processo fosse una farsa, ma avrebbe aggiunto: “non abbiamo un ministro che possa intervenire per chiederne il rilascio”.
Inoltre il direttore esecutivo dell’African Center for Justice and Peace Studies (ACJPS), Mossaad Mohamed Ali, ha affermato di aver motivo di credere che la donna sia stata illegalmente costretta a firmare una confessione dalla polizia.
La battaglia degli attivisti per i diritti umani
L’Ong internazionale Avaaz, che incoraggia la sensibilizzazione sui diritti umani e le condizioni della popolazione durante i conflitti bellici, ha manifestato indignazione per la sentenza capitale e sta cercando di smuovere i più alti governi mondiali per far pressione sullo stato del Sudan ed ottenere il rilascio della ragazza.
La battaglia a favore di Amal è inoltre promossa da Sulaima Ishaq, che dirige l’unità Violenza contro le donne del Sudan, ha affermato in un’intervista all’emittente britannica BBC che “anche i politici più conservatori sono contrari alla lapidazione. Ma le cose richiedono molto tempo per cambiare qui e poi arrivare ai tribunali, e le donne sono quelle che soffrono”.
La legge sudanese prevede sanzioni come la fustigazione, l’amputazione di mani e piedi, l’impiccagione e la lapidazione, ma Hala Al-Karib, direttrice regionale dell’Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa (SIHA), ha affermato che le leggi sudanesi sull’adulterio sono state “applicate in modo sproporzionato alle donne”.
Hala Al-Karib ha poi denunciato che sebbene l’ultimo caso noto di sentenza di pena di morte per lapidazione risalga a dieci anni fa, è probabile che in questo periodo potrebbero esserci stati altri casi che erano passati inosservati.
Il governo in carica nel 2015 aveva promesso di eliminare la pena per la lapidazione come forma di punizione, ma come constatato dai gruppi a difesa dei diritti umani, questa modifica al sistema giudiziario sudanese non è mai avvenuta.