È il 9 ottobre 1963 quando una frana provoca quello che è passato alla storia come “disastro della Diga del Vajont”, che strappa alla vita quasi 2mila persone nel Bellunese. Un giovane Dino Buzzati, originario del luogo, pubblica sul Corriere della Sera un lungo articolo in cui racconta la tragedia.

Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l’onda spaventosa, dal cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come… Sì come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago il tremito della guerra, lo scrole dell’acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l’irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c’è nelle tombe? Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano,

scrive, sostenendo che a provocare l’irreparabile incidente sia stata la natura crudele.

Diga del Vajont, cosa è successo

Sono le 22.39 di sera quando una frana precipita dal pendio del Monte Toc nelle sottostanti acque del bacino artificiale del Vajont, realizzato con l’omonima diga, allora la più alta del mondo, provocando lo straripamento dell’acqua e l’inondazione degli abitati del fondovalle veneto. A perdere la vita sono quasi 2mila persone, tra cui 487 bambini e ragazzi con meno di 15 anni e i danni sono innumerabili.

La diga del Vajont era stata costruita tra il 1957 e il 1960 con lo scopo di ottenere energia idroelettrica dai diversi bacini presenti nella zona del Veneto grazie alla trasformazione dell’energia potenziale dei fiumi che attraversavano la zona, di cui i più importanti erano per l’appunto il Piave e il Vajont. Un progetto ambizioso, che non aveva però tenuto conto di alcuni problemi: innanzitutto la mancanza di una predisposizione a livello idrogeologico dell’area a ospitare un lago artificiale, così come la stretta vicinanza con il Monte Toc.

Ed è proprio il concorso di negligenze umane ed elementi naturali a causare il disastro, presagito dai brontolii che il Monte aveva iniziato ad emettere, segno che qualcosa si stava muovendo, tanto che il giorno precedente era stato emesso un avviso di pericolo continuato. L’incidente è inevitabile ed ha risonanza mondiale: tra gli altri, anche il Presidente americano Kennedy e la Regina Elisabetta II inviano messaggi di cordoglio per le famiglie delle vittime, mentre le responsabilità, come sempre accade dopo le tragedie, si rimbalzano.

Alla fine, dopo anni e anni di processo, nel 1971 la Corte di Cassazione indica come maggiori responsabili del disastro Francesco Sensidoni, capo del servizio dighe del Ministero dei lavori pubblici e componente della commissione di collaudo, e Alberico Biadene, direttore del servizio costruzioni idrauliche della SADE. Ma serve poco a sanare la ferita, ancora profondamente aperta.

Se oggi l’attenzione verso l’emergenza idrogeoologica, la sensibilità per l’ambiente e il mutamento climatico, sono costante motivo di impegno e confronto, lo dobbiamo anche a chi 59 anni fa rimase vittima di un incauto e incosciente sfruttamento delle risorse che si era sforzato di piegare pericolosamente la natura all’interesse dell’uomo.

Così Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, in occasione dell’anniversario del disastro.