Con l’epidemia di Covid è diventato necessario lavorare da casa, a distanza, con il coinvolgimento di parecchi milioni di lavoratori, mentre lo smart working prima del Covid coinvolgeva meno di mezzo milioni di persone. Con la fine, o comunque con il ridimensionamento dell’epidemia di Covid, per molti, a partire dai vertici governativi, si è chiusa quella che era considerata una parentesi legata all’emergenza. Si è parlato e programmato un ritorno in massa negli uffici e nei luoghi di lavoro, ma ora si dibatte su un riutilizzo di una certa consistenza del lavoro a distanza, vista la nuova “emergenza “ legata alla crisi energetica.
Tutte queste tematiche sono state affrontate da molteplici prospettive nell’ultima edizione della Scuola estiva, che si è tenuta ad Arpino, nella Fondazione Mastroianni, dal primo al quattro settembre. Ne parliamo con il suo Curatore, Enrico Ferri.
Professor Ferri, ci vuole dire quali sono stati i più rilevanti dati emersi nella recente SEA ad Arpino, sulla questione dello smart warking e dell’insegnamento a distanza?
Farei riferimento innanzitutto ad una questione di metodo: come tu stesso hai ricordato, Direttore. Il cosiddetto “lavoro flessibile” non è ancora considerato una modalità efficace, economica, ecologica ed alternativa al cosiddetto lavoro in presenza.È considerato un ripiego, qualcosa da utilizzare in casi estremi, una sorta di tappa buchi. In questi giorni, ad esempio, si è deciso di prorogare a fine anno l’utilizzazione dello smart working, ma solo per coloro che hanno uno stato di salute precario o figli piccoli. Sembra che neanche due anni di Covid e di utilizzazione diffusa e proficua dello smart warking abbiano insegnato nulla.
Quale è il modello di lavoro che invece domina e condiziona le nostre politiche del lavoro?
È stato spiegato in modo assai chiaro da uno dei relatori della SEA, il prof. Giuseppe Cricenti, Consigliere alla Suprema Corte di Cassazione. In Italia ci sono circa 22 milioni di lavoratori, ma 15 milioni sono quelli che una volta si definivano “di concetto”, cioè lavoratori intellettuali. Per tutti, però, è applicato un modello di lavoro vecchio di un secolo, quello di Henry Ford fondato sull’impiego di lavoratori generici occupati con il sistema della catena di montaggio, compiendo una serie di gesti automatici e correlati con quelli degli altri lavoratori. Il fatto di trovarsi ogni giorno, dieci o più ore in un certo spazio, la fabbrica, adottando il sistema produttivo della “catena di montaggio”, era di per sè sinonimo di produttività e di efficienza. Il prof. Cricenti ha ricordato che si teneva rigidamente separato lo spazio e il tempo del lavoro, dalla vita privata e dalle pratiche non lavorative. Ma tolto il tempo del lavoro in fabbrica, degli spostamenti e del riposo notturno, rimaneva ben poco da vivere.
Da anni, però, questo modello persino nelle fabbriche non si adotta, senza considerare che, come lei ricordava, in Italia e in tutto il mondo occidentale, gran parte del lavoro è di tipo intellettuale e spesso si svolge con l’ausilio delle tecniche, di cui il PC è l’emblema e il condensato più rappresentativo. In che cosa consiste il “fordismo” contemporaneo?
Oggi si fa quello che gli operai di Ford facevano un secolo addietro. Si esce di casa, al mattino, ci si reca nel posto di lavoro e si rimane per 7/8 ore nello stesso ambiente, assieme ai propri colleghi. Ogni operatore di “concetto” lavora per proprio conto, ma la cosa paradossale è che si pensa che la sola permanenza in un dato ambiente di lavoro con altre persone sia di per sé sinonimo di produttività. Che restare nella propria “postazione” per un certo numero di ore sia indice di impegno e produttività.
Non è così?
Assolutamente no! Anche un bambino capirebbe che se al mattino entrano 5 persone in un ufficio, dopo 7 ore di lavoro al PC, non producono risultati qualitativamente e quantitativamente validi ed equivalenti. per il fatto di trovarsi in un certo luogo con altri impiegati un certo numero di ore. Qualità e tempi di esecuzione, in altri termini il risultato ottenuto permette di valutare il lavoro svolto.
Nell’idea che il lavoro in presenza sia preferibile non gioca anche la convinzione che in tale modalità sia più facile monitorare il lavoro e l’impegno del dipendente?
Certo, si resta nella logica fordista, per cui l’impegno del lavoratore alla catena di montaggio era facilmente visibile e misurabile. Ma ci si trova persino un passo indietro del fordismo, che monitorava i risultati del lavoro, ad esempio il numero di pezzi prodotti. Per decenni, a partire dagli anni Cinquanta, il principale obbligo dell’impiegato consisteva nell’ arrivare puntuale in ufficio, disbrigare le sue “pratiche” per un certo numero di ore. La valutazione della qualità del prodotto finale di rado veniva considerata. Il capo-ufficio controllava di fatto la presenza, la puntualità e la formale abnegazione dell’impiegato. Ancora oggi si pensa che un lavoratore in presenza sia più facilmente “controllabile”. Non si considera che oggi si lavora prevalentemente a progetto e che i risultati ottenuti sono il principale metro di valutazione delle capacità e dell’impegno.
Anche nell’insegnamento, in particolare quello universitario, sembra che si privilegi ancora la presenza, distinguendo le università “in presenza” da quelle “a distanza”. Spesso, neanche troppo velatamente, si sottolinea la presunta superiorità delle prime nei confronti delle seconde.
Nel caso dell’università ci troviamo in una situazione al limite della farsa e del paradosso. Le “Università in presenza “ non esistono, nel senso che i “presenti”, di regola, non sono neanche il 20% degli iscritti, tant’è che in molte facoltà, la grande maggioranza, la frequenza non è obbligatoria. Quindi, questa presenza non è né obbligatoria, né monitorata, né monitorabile. Per una esigua minoranza dei frequentanti, la presenza consiste nel fatto che ci si reca all’università per ascoltare la lezione, in certi giorni e in certe ore. Si assiste a delle conferenze, di cui non resta traccia, se non gli appunti presi per proprio conto dagli studenti. Non si ha nessun rapporto con il professore, che si rivede solo in sede d’esame. In quel momento si incontrano due sconosciuti.
Invece nell’insegnamento a distanza le cose vanno meglio?
Questa formula, “insegnamento a distanza”, è fuorviante perché rinvia ad una distanza fisica fra gli interlocutori, docente e studente. Nelle università telematiche, la telematica annulla la distanza fisica tra le persone e rende presente la comunicazione e l’interscambio. Quindi le vere università in presenza sono quelle telematiche.
Esiste una differenza sostanziale che distingue le università tradizionali da quelle telematiche?
Certo, lo ha spiegato Pietro Oliva, docente di Ingegneria, nella sua relazione alla SEA. Il monitoraggio dell’apprendimento dello studente sta alla base dell’insegnamento attraverso la telematica, mentre nelle università tradizionali non esiste alcun tipo di verifica dell’apprendimento dello studente; l’unica verifica avviene in sede d’esame: o la va o la spacca, verrebbe da dire con una battuta!
Potrebbe illustrare meglio questi aspetti, magari con qualche esempio?
Chi segue un corso per via telematica, ad esempio il mio corso di Filosofia del Diritto all’Unicusano, ha un insieme di lezioni di trenta minuti in piattaforma. Mentre ascolta la lezione, viene verificata più volte tanto la sua attenzione , che la comprensione di specifiche nozioni. La lezione viene introdotta da un abstrct e alla fine ci sono una serie di slides con i principali aspetti trattati nella lezione. Inoltre, lo studente deve rispondere ad alcune domande che verificano l’apprendimento complessivo della lezione. Solo se si superano queste verifiche si può procedere oltre, alla successiva lezione. Lo studente, inoltre, lo stesso giorno o quando vuole, dal lunedì al venerdì, si può collegare con me in videoconferenza e chiedermi spiegazioni o altro. Ha a disposizione anche un tutor, dalle 09.00 alle 18.00 dal lunedì al venerdì. Viene messo in condizione di studiare al meglio, nei tempi e con la frequenza da lui scelti, con una flessibilità straordinaria. Quando facevo lo stesso corso nell’Università di Sassari, ma questo vale per tutte le università “in presenza”, ai miei corsi veniva una minima percentuale degli iscritti, seguiva la mia lezione e, nel migliore dei casi, faceva qualche domanda alla fine della lezione.
Il modello di insegnamento nelle università anglosassoni mi sembra contempli la verifica dell’apprendimento raggiunto dagli studenti sulle varie tematiche del corso.
Si, ma in ogni caso non sarebbe applicabile in corsi che vedono uno o più migliaia di studenti iscritti, come avviene spesso nelle università italiane. Quando collaboravo alla cattedra di Filosofia del Diritto alla Sapienza, gli studenti che sostenevano l’esame in un anno erano più di duemila.
In questi giorni si è deciso di prorogare lo smart working per tutto l’anno; lo considera un passo avanti?
Assai limitato, perché si resta nella logica del ripiego in via temporanea e straordinaria. Non si sono compresi gli enormi vantaggi che questa modalità di lavoro offre, in termini di risparmio di tempo e di energie, di alleggerimento del traffico, di decongestionamento dei trasporti, di riduzione dell’inquinamento, di riduzione degli spazi necessari per gli impianti di lavoro e di parcheggio, e via dicendo.
Ne parleremo presto, in una prossima occasione, su TAG24.
Volentieri, a presto.