A un anno e mezzo dal golpe di stato in Birmania (ex Myanmar), il Tribunale presieduto dalle forze militari ha condannato l’ex leader democratica Aung San Suu Kyi a sei anni di reclusione per corruzione. Stando poi a tutte le restanti accuse nei suoi confronti, la donna rischia la prigione a vita o la pena di morte.
Birmania, la situazione a 18 mesi dal golpe militare
Il governo militare della Birmania continua a usare il pugno duro e ha condannato l’ex primo ministro Aung San Suu Kyi a sei anni di reclusione per corruzione.
La leader democratica, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1991, si trova in carcere dal febbraio 2021 quando il golpe guidato dalle forze militari rovesciò il risultato elettorale del novembre 2020. Aung Kyi venne immediatamente incarcerata e accusata di frode elettorale, una delle tante “colpe” pendenti insieme alle accuse di corruzione sui cui verte la sentenza dei giorni scorsi. A fine aprile l’ex consigliera di Stato fu incriminata per aver accettato una tangente da 600.000 in contanti e lingotti d’oro.
Il pugno di ferro della giunta militare era diventato cosa nota già dall’insediamento, quando gli scontri provocarono oltre 1.500 morti e quasi 12mila arresti (tra cui la stessa Kyi). Fallì dunque il tentativo di instaurare un regime democratico che avrebbe spezzato il regno ininterrotto della dittatura che vige dagli anni Sessanta, con il Paese sprofondato in una crisi senza fine. Lo scorso aprile, inoltre, sono state eseguite le prime quattro condanne a morte dagli anni Ottanta nei confronti di altrettanti prigionieri politici accusati di terrorismo.
L’ultima frontiera dello sfruttamento minerario
Naturalmente lo scenario della Birmania è ben noto agli occhi del mondo, con l’Onu che da circa tre anni ha creato una macchina investigativa nel Paese con il compito di accertare eventuali crimini contro l’umanità. Solo pochi giorni fa la cellula ha dichiarato che ci sono tutte le condizioni per ottenere un’incriminazione schiacciante, tra violenza sessuale e fisica anche nei confronti di donne e bambini.
Pesa poi lo stretto legame con l’asse comunista russo-cinese, che di fatto si avvale della Birmania come terra di sfruttamento: solo nell’ultimo quinquennio il numero di miniere è cresciuto in maniera esponenziale di migliaia di unità, rendendo l’ex Myanmar suolo ambito per l’estrazione di terre rare poi non accuratamente smaltite e dunque inquinanti per la popolazione.