Bulli rubano carrozzina ad una disabile a Siena. Mi chiedo se il caldo particolarmente pungente di questa estate torrida sia sufficiente a giustificare il compimento di azioni che francamente hanno dell’incredibile o se invece sia proprio della natura umana potersi spingere a livelli impensabili di cattiveria e, lasciatemelo dire, di stupidità.

Eppure la triste vicenda che ha visto (suo malgrado) come protagonista Clemy Spinelli, studentessa di archeologia con disabilità a Siena, è accaduta per davvero: sui principali quotidiani tutti possiamo leggere che è le è stata rubata la carrozzina elettrica, a lei indispensabile per muoversi a Siena, per provarla, per andarci a fare un giro…

Siena: bulli rubano carrozzina disabile

Onestamente, il tutto non è disarmante in ragione dell’assenza del minimo senso di umanità in chi si è reso autore di questo gesto di violenza? Queste persone hanno però trovato di fronte a loro una donna combattiva, che ha subito denunciato quanto accaduto alle forze dell’ordine, che hanno individuato i responsabili e recuperato la carrozzina elettrica ormai purtroppo distrutta.

La condotta perpetrata è particolarmente riprovevole, poiché è stato compiuto un atto di violenza contro una donna e contro una donna con disabilità; Clemy Spinelli è stata offesa due volte: come donna e come persona con disabilità.

Gesti del genere francamente mettono a dura prova il garantismo che deve connotare ogni consesso sociale che voglia dirsi civile. Quando si leggono notizie del genere, non vi nascondo, l’impulso a ragionare in termini di “sbatteteli dentro e buttate via la chiave” non è indifferente; anche perché legittimamente viene da interrogarsi su quale sia il margine di recupero per chi ha concepito e poi attuato questo tipo di condotta criminale; sì, criminale perché, specie in questi frangenti, è doveroso chiamare le cose con il loro nome: non è ammissibile che venga sempre derubricato tutto ad una “ragazzata”.

Chi si è reso responsabile di questa aggressione deve esserne chiamato a rispondere nelle giuste sedi. Avrei una proposta di “giustizia equitativa”: tre mesi. Tre mesi di reclusione? No, niente reclusione…per quanto tre mesi nelle patrie galere sì che servirebbero a costoro a comprendere sulla propria pelle quanto sia ingiusto accanirsi sui più deboli.

Tre mesi di “libertà”, ma condannati (è il caso di dirlo) a non usare le gambe, mai. In questi tre mesi in casa o all’esterno potranno deambulare solo avvalendosi di una sedia con le ruote; potranno sperimentare che cosa significa salire e scendere dal letto senza poter usare le gambe, andare in bagno (in un bagno pubblico magari), vestirsi, lavarsi, prendere un autobus, un treno, fare la spesa etc.

Credo che questa sarebbe una lezione davvero rieducativa.

Federico Girelli

Professore di Diritto Costituzionale

Università Niccolò Cusano di Roma