Il sequestro di Barbara Piattelli è tornato a far parlare di sé. Chiunque “frequenti” la rete lo può trovare tra i trend topic del momento e la ragione sta tutta nel piccolo schermo. Ieri, infatti, è stato raccontato su Rai3 all’interno del programma “Racconti criminali” grazie a cui l’intero paese è tornato a ragionarci. Perché fu un atto tremendo che simboleggiò una certa mentalità che, col tempo e col duro lavoro che costò la vita a molti eroi, fu prima indebolita e poi sradicata. Come accade spesso nella Storia (con la “esse” maiuscola), ricordare vuole dire crescere. Ecco cosa c’è da sapere su questa macchia della nostra cronaca.
Il sequestro di Barbara Piattelli: i fatti
Barbara Piattelli era la giovane figlia del noto stilista. Il suo incubo iniziò 40 anni fa, il 10 gennaio 1980, quando a Roma la bellissima ragazza venne rapita sotto lo sguardo interdetto della madre, mentre rincasava dopo una giornata di lavoro. Come dicono i fatti:
“Barbara Piattelli era fidanzata con l’uomo che sarebbe diventato in seguito suo marito, Ariel Arbib. La coppia aveva intenzione di andare a teatro ad assistere al debutto del giovane Carlo Verdone in “Senti chi parla”. Il fidanzato la attendeva invano proprio davanti al Piccolo Eliseo mentre continuava a chiamare il fratello di Barbara, Massimiliano, che dal canto suo era ignaro di ciò che stava accadendo nel garage di casa.”
Il sequestro di Barbara Piattelli: il racconto della prigionia
La ragione per cui divenne storico il sequestro di Barbara Piattelli è che, fu uno dei sequestri a scopo di estorsione più lunghi subito da una donna:
“La giovane fu trascinata a forza su una berlina di colore scuro mentre la madre è riversa per terra nel garage. I sequestratori le fecero indossare un casco da moto infilato al contrario. L’ultima immagine di Barbara fu proprio la visione della madre, con una pistola puntata alla tempia. Da quel momento ebbe inizio un lungo viaggio da bendata che l’avrebbe portata – come appreso solo nei mesi seguenti – in Aspromonte, in una grotta sperduta dove vi rimase per 343 interminabili giorni fatti di catene, dolori e spostamenti continui da un covo ad un altro. “Erano giornate senza fine, delle quali mi è rimasto ancora il freddo addosso. Mi viene chiesto spesso come sia riuscita a sopportare tutto quel dolore. Ma quando ti trovi in situazioni estreme, l’istinto di sopravvivenza ti dà il coraggio anche di resistere in condizioni disumane”, raccontò diversi anni più tardi.
I suoi sequestratori le davano da mangiare pasti freddi, ma Barbara Piattelli non sentì mai una mano femminile dietro a quei gesti. “Ebbi anche un’infezione alimentare che mi fece venire l’ittero”, svelò. Solo grazie alla radio e a dei giornali locali che le furono concessi raramente comprese di essere in Calabria. Ad un mese dal suo sequestro, la giovane tentò persino la fuga. Dopo aver chiesto al suo carceriere di potersi appartare per andare in bagno, riuscì a risalire la montagna, ma la sua fuga durò giusto un attimo poiché uno dei banditi la riportò rapidamente nella grotta. “E Pippo, il più violento di tutti, mi mise addirittura le catene per evitare che fuggissi. Per fortuna per un breve periodo”, ha ricordato Barbara a Repubblica. A proposito dei banditi, la donna li ricorda come “rozzi, ignoranti e non mi aggiornavano sul corso delle trattative. Dicevano soltanto che mio padre non voleva pagare, ma io sapevo che non era così, sapevo che avrebbe fatto di tutto per riportarmi a casa”.”
Il finale agro-dolce
La storia di Barbara Piattelli ebbe fortunatamente un lieto fine. La ragazza fu liberata ma la donna, che adesso è nonna, svela quello che è ancora un grande buco nello stomaco:
“Il mio è un sequestro messo in atto da una banda criminale legata alla ‘ndrangheta e dunque alla mafia. Io non sono stata riconosciuta vittima delle mafie. Prerogativa che spetta quando ci sono delle condanne, quindi non nel mio caso perché nessuno è stato condannato. Condizione che viene riconosciuta anche a chi riporta lesioni fisiche. Ma non è forse sufficiente la ferita dell’anima?”.
Un fatto che non merita di essere dimenticato in un paese dove la violenza è ancora nelle nostre vite.