Si dice che la storia è maestra di vita. Historia Magistra Vitae, scriveva Cicerone. La sanità italiana però deve aver poco studiato la letteratura, non avendo imparato più di tanto dal suo passato. La situazione dei posti letto negli ospedali nazionali ne è un esempio. La lezione della pandemia sembra ancora non essere stata metabolizzata del tutto: sebbene siano tornati i medici ad essere categoria degna di stima, quasi dappertutto, di certo la spesa per il comparto sanitario nel nostro Paese ancora sembra flebile, dopo quasi dieci anni di tagli e che hanno ridotto di 25.000 letti quelli a disposizione delle strutture.

La sanità italiana ha perso 25.000 posti letto in 10 anni

Secondo il report del FoSSC, il Forum delle 30 Società Scientifiche dei Clinici Ospedalieri e Universitari Italiani, in dieci anni (fra il 2010 e il 2019), gli istituti di cura – leggasi ospedali, ma non solo – sono diminuiti da 1.165 a 1.054, con un taglio di circa 25mila posti letto di degenza ordinaria, che sono scesi così da 215 mila a 190 mila. Non solo, perché oltre ai letti disponibili, è diminuito anche il personale dipendente del Servizio Sanitario Nazionale. In 10 anni ci sono oltre 42mila medici in meno. E chi è rimasto in corsia inizia anche a percepire il peso dell’età: 49,8 anni, l’unico dato in crescita, insieme a quello del numero dei precari. Sebbene secondo il Mef nel 2020 siano stati assunti a tempo indeterminato oltre 15mila medici, per tornare ai livelli del 2011 ne servirebbero altri 18mila.

Medici cercasi

Eppure, l’Italia vorrebbe assumere nuovi medici. Semplicemente non sembrano esserci: quella dei camici bianchi è una categoria in via d’estinzione soprattutto a causa, denuncia la Fiaso, dei tetti di spesa del personale, che è ancora oggi fissato all’1,4% in meno rispetto all’anno 2004. Ma non solo: secondo la Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere la colpa ricade anche sull’imbuto formativo universitario, che a fronte di un pensionamento annuale di 20mila camici, ne forma solo 14mila.