Lavoro: il 12% del totale dei lavoratori italiani, 1,5 milioni, potrebbe incorrere nel taglio dello stipendio. La causa sarebbe il dumping salariale, cos’è? Ne abbiamo parlato col giuslavorista Raffaele Trivellini. “I lavoratori più a rischio sono quelli che lavorano per imprese di piccole dimensioni che applicano dei contratti collettivi in cui si prevedono condizioni economiche e/o normative deteriori rispetto a quelle stabilite nei contratti collettivi, per così dire “principali” o “tradizionali” – ha spiegato Trivellini – si stima che 1,5 milioni di lavoratori dipendenti abbiano un rapporto di lavoro regolamentato dai contratti collettivi per così dire “minori”. Tra questi vi sono quelli (il cui numero si è però fortemente ridotto negli ultimi anni) che si è soliti definire “contratti-pirata” a sottolineare le peggiorative condizioni retributive e/o normative in essi previste.”

Lavoro, sindacati e rischi derivanti

Lavoro e sindacati: questo è stato il binomio vincente per coloro che dovevano tutelare i loro diritti in passato, oggi non più. “Si assiste al proliferare di sindacati minori, e a volte persino di sindacati di “comodo”, che alle volte non tutelano come dovrebbero i dipendenti di una determinata impresa o di un gruppo di imprese e contrattano con i datori di lavoro o con le associazione datoriali di categoria trattamenti retributivi non proporzionati alla qualità e quantità del lavoro svolto. Il rischio che si corre è che a causa di queste situazioni limite o “grigie” ci sia in generale una sempre minore fiducia nel ruolo e nell’intervento delle organizzazioni sindacali”, ha osservato il giuslavorista Raffaele Trivellini, sottolineando quanto sia difficile per i lavoratori moderni tutelare i loro diritti.

Come tutelare i propri diritti?

“Facendo ricorso al giudice del lavoro territorialmente competente. Ancora oggi i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative non hanno efficacia erga omnes, vale a dire nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti a quel determinato settore o comparto produttivo. Tuttavia secondo la giurisprudenza i minimi salariali previsti nei predetti contratti collettivi possono comunque costituire il parametro di riferimento per garantire ai lavoratori la retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 della Costituzione. Dal canto suo, il legislatore è invece intervenuto per affermare tale principio e “criterio-guida” solo con riferimento ad alcuni datori di lavoro (come ad esempio le società cooperative) e/o a specifiche situazioni (ad esempio per il subentro negli appalti) e/o a limitati fini (per il calcolo della contribuzione previdenziale da versare). Manca ancora in Italia una normativa generale che applichi il predetto principio con riferimento a tutti i settori e a tutte le categorie di datori di lavoro e di lavoratori”, ha specificato Trivellini.

La discussione sul salario minimo

“L’attuale discussione sul salario minimo potrebbe certamente rappresentare l’occasione giusta per introdurre una normativa di applicazione generalizzata ma occorre prestare attenzione al fatto che meccanismi impositori (come quelli che sembra si stiano prefigurando) di rinvio sic et sempliciter ai minimi salariali previsti nei contratti collettivi sottoscritti in un determinato settore o comparto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative potrebbero nei fatti scontrarsi con il pluralismo sindacale costituzionalmente sancito”, ha aggiunto l’esperto.

Il salario minimo e il potere d’acquisto delle famiglie

“Se non si introducono degli efficaci correttivi certamente si assisterà ad un mercato del lavoro in cui vi sono ancora dei lavoratori che prendono uno stipendio più basso di tanti altri loro colleghi che lavorano nel medesimo comparto produttivo o che vedono applicarsi delle condizioni normative (per istituti quali ferie, permessi, etc.) deteriori rispetto agli altri. Una soluzione al problema può essere, almeno in parte, l’introduzione di un salario minimo. Si discute in questi giorni se debba farsi riferimento al riguardo al trattamento economico complessivo (cosiddetto TEC) o alla retribuzione tabellare o alla paga oraria; qualche sia la soluzione prescelta è a mio avviso indubitabile che serva una disciplina di legge e che non ci si possa limitare invece a delegare il tutto alle parti sociali. Non è un’operazione semplice poiché gli interessi in gioco sono molteplici e la soluzione proposta deve essere ragionevole ed equilibrata e percepita come tale anche da chi debba poi applicarla. Non tutti sanno che già la legge delega n. 183 del 2014 aveva previsto all’art. 1, comma 7, lett. g), la introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali; il fatto che non siano stati poi emanati i decreti legislativi attuativi fa comprendere come la tematica del salario minimo sia complessa e spinosa e comunque non agevole da affrontare – ha concluso Raffaele Trivellini – oggi la situazione non è certamente più quella del 2014. L’attuale contesto storico e socio-economico con crescenti dinamiche inflazionistiche non consente di fare ulteriori passi “falsi”. Bisogna agire e velocemente. Occorre tuttavia anche essere consapevoli che la introduzione del salario minimo non sarà da solo sufficiente a risollevare il potere di acquisto dei lavoratori italiani (che si è già eroso negli ultimi trent’anni) e ad assicurare agli stessi ed alle proprie famiglie una esistenza realmente libera e dignitosa.”