Nel ’72 avevo quindici anni. Studicchiavo, giocavo a calcio almeno tre ore al giorno e leggevo alcuni giornali, due li compravo e uno lo sfogliavo al bar.
Per informarsi c’erano anche la radio e i telegiornali.
Il 17 maggio dal giornale radio arriva la notizia dell’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi, un nome e un cognome che nelle ultime settimane mi erano diventati familiari. Perché?
Ogni mattina davanti alla scuola venivano distribuiti volantini con parole sprezzanti e cariche d’odio verso Calabresi.
Il nome del poliziotto veniva associato alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli avvenuta nella questura di Milano dove era in servizio il commissario.
Erano i volantini dei gruppi extraparlamentari di sinistra firmati da militanti che più avanti con gli anni me li sarei trovati alla guida di giornali, televisioni e aziende.
Chi, invece, li distribuiva è diventato imprenditore “borghese” oppure operaio “proletario”.
Le campagne d’odio che seminano violenza
Dopo cinquanta anni, nei giorni dell’anniversario della morte del poliziotto, mi torna in mente quella campagna violenta che assomiglia molto a quelle che vengono scatenate oggi attraverso i social. Cambiano i mezzi ma la colonna sonora è la stessa:
odiare odiare odiare che alla fine qualcuno che dalle parole passa alle vie di fatto esce sempre.
Stefano Bisi