C’è voluta una pandemia, che da più di due anni ha investito l’Italia, per rendersi conto che in settori come la sanità non è possibile applicare leggi di mercato fondate solo su produttività e profitto economico. C’è voluta una guerra nel cuore dell’Europa e la crisi energetica che ne è derivata, per capire che in settori vitali per la vita di un popolo, come possono essere l’energia e la difesa, bisogna cercare di essere autonomi e in alternativa occorre impegnarsi per raggiungere l’autosufficienza. Come pure che in campo energetico sia essenziale differenziare le fonti di approvvigionamento e usare energie rinnovabili e non inquinanti. Allo stesso tempo, con il Covid e nell’impossibilità di mantenere un contatto fisico ravvicinato, si è preso atto che molte attività che si svolgevano in presenza e fra altre persone, si sarebbero potute svolgere “da remoto”, comunicando ed interagendo attraverso tecniche come l’informatica e la telematica.
Un’università ferma agli Anni Cinquanta
Il caso dell’università è per più versi paradigmatico: è il luogo della ricerca, della scienza e della formazione più alta che, va da sé, dovrebbe utilizzare i più avanzati metodi di comunicazione, insegnamento ed interazione.
Fino ad ieri, in gran parte del sistema universitario italiano, in pieno XXI° secolo, le due modalità sulle quali tutto si imperniava, l’insegnamento nei corsi e lo studio individuale dello studente, erano le stesse degli Anni Cinquanta, poco conta se ci riferissimo agli Anni Cinquanta del secolo passato o a quello di Hegel. Si tratta della diffusa procedura che appare in un noto disegno di una lezione tenuta da Der Philosoph, il quale parla dietro una cattedra, davanti a studenti seduti nei banchi che prendono appunti. Gli stessi che poi, tornati a casa, prepareranno l’esame sui testi del docente.
Nelle università italiane, ma non solo, nell’ultimo secolo si è verificato uno strano fenomeno “bipolare”: nella parte gestionale-amministrativa c’è stato un naturale e scontato adeguamento ai ritrovati della tecnologia, che ha investito solo marginalmente la dimensione scolare. Negli ultimi trent’anni si è avuta una informatizzazione e digitalizzazione delle procedure riguardanti la carriera amministrativa ed accademica dei docenti e degli studenti. Gli esami, ad esempio, si prenotano e se ne regista l’esito per via informatica.
In gran parte delle università italiane, però, si è dovuto aspettare l’Anno Domini 2020 per informatizzare l’aula con sistemi di ripresa multimediale che consentono anche l’ascolto e l’interazione da remoto. Si è provveduto anche a registrare ed archiviare le lezioni dei corsi, permettendone un’utilizzazione asincrona. Sono state attivate le “Piattaforme di collaborazione”; il docente apre una stanza virtuale con materiali vari: registrazioni delle lezioni, dispense, ecc. Alcuni docenti hanno aperto una chat, simile a WhatsApp, per la presentazione di slides o power point, con una serie di strumenti di conversazione asincrona suscettibile di divenire sincrona. Allo stesso tempo, le università hanno attivato canali di comunicazione, a supporto ed informazione degli studenti, utilizzando media come Facebook, Twitter, LinkedIn. In particolare, visto il volume di informazioni da gestire e diverse migliaia di utenti, La Sapienza ha ritenuto necessario dotarsi anche di un codice di condotta specifico e di affidare la comunicazione via social ad un gruppo di lavoro chiamato “redazione collegiale Sapienza” .
La vecchia università non esiste più
La nuova ridefinizione dell’insegnamento universitario evidenzia essenzialmente due aspetti: la vecchia università, quella che si esauriva nelle lezioni frontali nell’aula, non esiste più. La nuova università sarà un’università blended, che dovrà combinare presenza e distanza, sincronia e asincronia: banalmente “sfruttare” elemento umano e risorse della tecnica. Quelle appena riportate sono considerazioni di buon senso, persino banali. Diventano, però, proposte “rivoluzionarie” se consideriamo l’attuale quadro politico e legislativo in materia di insegnamento universitario.
Più sopra si è fatto riferimento alle innovazioni tardive e coatte che nelle università tradizionali si sono adottate in seguito alle problematiche emerse con la pandemia. Problematiche che però, occorre ribadirlo, esulano in buona parte dal contesto che la pandemia ha creato. In altre parole, una più agile, flessibile, funzionale organizzazione della didattica universitaria è un’esigenza che la pandemia ha esaltato, ma che prescinde da essa. Tali innovazioni hanno in buona parte ripreso metodi e prassi delle università telematiche, utilizzando, però, modalità spesso antiquate. La didattica attraverso la telematica non si limita ad usare e combinare le tecnologie, ma le usa per stabilire interconnessioni fra docenti e studenti. Non basta, ad esempio, registrare una lezione e permetterne l’utilizzazione asincrona. Occorre anche verificare, con modalità diverse ed interconnesse, se e fino a che punto lo studente abbia seguito ed appreso i contenuti della lezione. Altrimenti quest’ultima si limiterebbe ancora una volta ad essere una conferenza, con una fruizione agevolata.
Le università tradizionali diventano blended
Le università tradizionali, in sintesi, sono state “costrette” ad aprirsi alla telematica, seppure con un ritardo di trent’anni; un ritardo culturale che, però, ha generato un ritardo funzionale che il Covid ha messo in evidenza.
Le università tradizionali, “in presenza”, si stanno ridefinendo come atenei blended, che danno un ruolo non marginale alla telematica nella loro offerta formativa. Tale riconversione è favorita anche da una politica legislativa la quale ha preso atto che sarebbe illogico e disfunzionale non utilizzare nell’insegnamento universitario gli strumenti dell’informatica. In altri termini, ha preso atto che la didattica blended, che combina la frequenza in presenza e l’apprendimento da remoto, è la più efficace ed in linea con i ritrovati delle tecniche e delle molte possibilità che esse offrono.
È stata però una presa d’atto a senso unico, poiché tali aperture interessano quasi esclusivamente le università tradizionali, mentre la possibilità di combinare “distanza” e “presenza” fisica è assai limitata per le università telematiche, anche quando hanno tutte le caratteristiche in termini di spazi, strutture e materiali per erogare un insegnamento in presenza, combinandolo con l’insegnamento per via telematica. In tal modo si opera una duplice discriminazione: di tipo logico perché si riconosce l’utilità della didattica blended per le università tradizionali, ma non per le università telematiche. Per un altro verso si negano le pari opportunità e la libera competizione fra atenei, creando un vantaggio illegittimo alle università tradizionali, le sole che possono migliorare e differenziare l’offerta formativa.
Un uso discriminante della didattica blended
È quanto purtroppo emerge da recenti iniziative legislative. Il DM 289/2021, riprendendo normative precedenti, ha confermato per le università la possibilità di erogare i propri corsi di studi secondo quattro modalità didattiche: Corsi di studio convenzionali, con modalità mista, prevalentemente a distanza o integralmente a distanza, in funzione della percentuale di didattica in presenza e di didattica a distanza in esse previste. La stessa norma ha inoltre previsto che le università tradizionali possano attivare corsi secondo le quattro modalità sopra descritte, mentre le università telematiche sono autorizzate ad utilizzare unicamente le modalità “prevalentemente a distanza” e “integralmente a distanza”. La “modalità mista” può essere attivata dagli atenei telematici solo in convenzione con un’università in presenza.
La politica legislativa in ambito universitario non deve creare ostacoli ed alzare barriere, ma deve aprire strade nuove e favorire le innovazioni, l’arricchimento e l’articolazione dell’offerta formativa. In sintonia con i tempi ed i ritrovati della ricerca e della tecnica, non certo guardando ad un passato che non esiste nella realtà, ma che la può condizionare nella forma di ritardi culturali e di pregiudizi arcaici di cui non abbiamo alcun bisogno.
Prof. Enrico Ferri, Unicusano
www.ferrisstudies.com