Con la nascita delle università telematiche e la radicale innovazione che esse hanno rappresentato, modificando prassi di insegnamento e di apprendimento vecchie di secoli, anche il linguaggio della formazione scolastica è cambiato. Sono state trasformate e diversificate le modalità di insegnamento, di frequenza e di studio e con esse sono state innovate definizioni e linguaggi di queste nuove procedure. Quando io ho frequentato l’Università, c’era solo un modello di organizzazione dell’insegnamento e della didattica. Con l’avvento delle università telematiche, le vecchie università sono diventate “Università in presenza”, per distinguerle da quelle “a distanza” (“tele” in greco vuol dire “lontano”); università che utilizzano la tecnologia per mettere in connessione docenti e studenti che si trovano in luoghi diversi. In realtà, come ho ricordato in varie occasioni, queste distinzioni sono in buona parte fuorvianti, almeno per due motivi: nell’insegnamento la presenza non si riferisce al fatto che più soggetti si trovino nello stesso luogo fisico, ma evidenzia che nello stesso momento interagiscono fra di loro, anche nel modo più elementare, parlando ed ascoltando. In seconda battuta, occorre ricordare che le “università in presenza” in realtà non sono mai state tali, nel senso che la presenza “fisica” degli studenti è sempre stata limitata ad una percentuale minoritaria. Al punto che la “presenza” degli studenti nelle università “in presenza” non è neppure documentata o documentabile, per il semplice motivo che in gran parte delle Facoltà la presenza non è obbligatoria. Perciò, per essere più precisi, si dovrebbe parlare di “Università in presenza minoritaria e facoltativa”.
Didattica erogativa e interattiva
Anche le modalità di insegnamento si sono articolate ed arricchite. Nelle vecchie università c’era e c’è solo un tipo di didattica, almeno in teoria, quella cosiddetta “frontale”, face tu face: il docente tiene una lezione, che dura circa 45 minuti, poi lascia l’aula. Non c’è nessuna verifica dell’attenzione durante la lezione, né dell’apprendimento alla fine. Questa didattica si definisce erogativa.
La didattica telematica integra la didattica erogativa con quella interattiva, termine che rinvia all’interazione, all’interscambio, ad una partecipazione attiva e non meramente ricettiva dello studente. Nelle università tradizionali, “in presenza”, l’interazione fra docente e studente è assai limitata, comunque ha un ruolo del tutto marginale. Esempi di didattica interattiva possono essere i seminari, sempre che lo studente vi svolga un ruolo attivo, ad esempio interloquendo con il docente o illustrando una sua ricerca. Altro esempio che alla lontana si avvicina alla didattica interattiva può essere rappresentato dai colloqui che si hanno in occasione dei “ricevimenti” degli studenti in vista dell’esame o della tesi. Occorre sottolineare che è assai raro che uno studente si rechi dal docente della materia o dai suoi collaboratori per richiedere spiegazioni su tematiche del corso. In più di venticinque anni di insegnamento in università “in presenza” non mi ricordo di aver incontrato più di una decina di studenti richiedenti questo tipo di assistenza. La maggior parte delle volte, lo studente si rivolge al docente per avere informazioni sul programma d’esame e sulle modalità di svolgimento dello stesso, oppure chiede la tesi discutendo con il docente su tempi, modi e contenuti tematici dell’elaborato finale. Tutto questo ha poco a che vedere con una “didattica interattiva”, se non quando il docente e il tesista discutono sugli argomenti della tesi, sul metodo d’analisi e sui testi di riferimento, insomma su forma e contenuti dell’elaborato finale.
Didattica telematica
La didattica degli atenei telematici, invece, è per sua natura interattiva: lo studente nelle varie fasi della preparazione, dall’ascolto delle lezioni allo studio delle dispense, è chiamato a verifiche dell’apprendimento attraverso modalità in parte gestite autonomamente e per altro verso risultato dell’interscambio con docenti e tutor delle varie materie, ma pure con altri studenti attraverso le classi virtuali. La comunicazione con il docente e i suoi collaboratori, può avvenire in tre modi: attraverso la posta elettronica, le video conferenze o in presenza, nella sede universitaria. Nell’Unicusano, in cui insegno da più di tredici anni, ogni settimana i docenti dedicano uno o più giorni a ricevimenti e lezioni in presenza, cioè in sede. Del resto la stessa struttura di un Ateneo di 50 mila mq, con aule variamente attrezzate, mensa, foresteria per gli studenti, sette ettari di parco, palestra, biblioteche, laboratori, infermeria, ecc., evidenzia una diretta fruizione della stessa da parte di migliaia di studenti.
Per i motivi appena ricordati, non mi qualifico come decente di una università a distanza, ma di una università telematica, che per più versi è un’università in presenza, in quanto garantisce ogni giorno la “presenza” dell’insegnante e dell’ateneo nel percorso formativo dello studente e poiché svolge parte non effimera della sua Mission nella sede principale, a Roma.
Didattica blended
Le università telematiche, pertanto, sono per struttura atenei con insegnamento blended, termine con cui si indica la compresenza di didattica per via telematica e nella sede universitaria. In modo assai diverso stanno le cose per gli atenei vecchio stile, che in teoria dovrebbero erogare un insegnamento solo in presenza.
Con la pandemia del Covid , nell’impossibilità di svolgere i corsi in presenza le università tradizionali sono state ridotte al silenzio, comunque hanno visto compromessa la loro principale funzione e, con essa, le altre in presenza: l’uso dei laboratori, i seminari, gli esami e le sessioni delle tesi, senza considerare iniziative integrative come convegni o giornate di studi. Con la pandemia del Covid si è preso atto che era possibile promuovere l’insegnamento anche senza mettere in una stessa aula docente e studenti, perché la comunicazione fra persone non ha bisogno né di ubiquità nello spazio, né sincronia temporale. Si è cercato, quasi sempre in modo improvvisato, di ricorrere alla telematica, ma senza disporre dell’apparato informatico, né di piattaforme di facoltà e delle singole materie con i relativi materiali didattici per permettere agli studenti di seguire un proprio percorso, coadiuvati da docenti, tutor, personale vario. In molti casi si è fatto ricorso a supporti esterni come Google, avendo persino difficoltà ad archiviare le lezioni registrate. Questa situazione ha di fatto ulteriormente ridotto la frequenza degli studenti e per un altro verso ha evidenziato i ritardi e le carenze nell’uso della tecnologia telematica, nonostante sia disponibile da alcuni decenni.
In molti ambiti lavorativi, università compresa, non solo si è fatto uso del lavoro a distanza, variamente chiamato (smart working, lavoro flessibile, ecc.), ma si è compresa la sua utilità e l’ estrema flessibilità che garantisce, prendendo atto dei vantaggi ai fini della produttività, del contenimento dei costi, della riduzione dei tempi morti e del consumo di energie che esso garantisce.
Smart working: dall’eccezione alla regola
Di conseguenza sia in ambito privato che pubblico, è in fase di ridefinizione un’organizzazione del lavoro che lasci ampi spazi al lavoro a distanza, “da casa”, o comunque da un luogo di intervento che non sia la sede centrale dell’azienda. Un tipo di lavoro che prima occupava percentuali minime dell’impiego ed era visto come una sorta di rimedio estremo e temporaneo, da adottarsi ad esempio in caso di malattie degli addetti che ne impedivano la mobilità.
Nel contesto universitario la crisi pandemica ha accentuato lo sviluppo della didattica telematica, processo che era già in atto da diversi anni perché ci si era resi conto che tale modalità permette tra l’altro di raggiungere un’utenza assai più vasta, superando barriere spaziali e rimodulando in modo flessibile e personalizzabile i tempi e le procedure dell’apprendimento. Università come La Sapienza, ad esempio, si sono dotate da anni di un secondo ateneo telematico. Anche nelle università tradizionali, si è scoperta la didattica mista, blended, che combina didattica in presenza fisica e a distanza, per via telematica.
Pergamena blended
In realtà, anche l’insegnamento tradizionale è per sua natura blended, cioè misto. Con l’insegnamento si trasmettono informazioni, notizie, analisi: pensieri che si possono rappresentare con le parole o con la scrittura, che è una forma di memorizzazione del pensiero. Le culture orali, senza scrittura o con un uso limitato della stessa, usano la memorizzazione e il racconto; le culture che conoscono la scrittura usano il libro. La scrittura fissa il pensiero, lo preserva e lo trasmette. La dottrina di personaggi come Socrate, Gesù e Maometto ci è stata trasmessa attraverso i secoli perché è stata raccolta in testi, in forma scritta.
Il libro è un tipico strumento di didattica a distanza. Riporta il pensiero di un autore che è distante dal lettore, un autore che spesso è vissuto secoli addietro. I primi libri sono stati trascritti su pergamena e solo in epoca relativamente tarda la carta, invenzione dei Cinesi e arrivata in Europa attraverso gli Arabi, ha permesso la scrittura e la diffusione del libro e con esso della civiltà. Tale riproduzione e diffusione si è dilatata con l’invenzione della stampa e ancor più con l’e-book e la comunicazione per via informatica.
Ancor oggi, all’inizio del XXI° secolo, nelle università italiane e non solo, la maggioranza degli studenti usa come principale mezzo di apprendimento il primo strumento di didattica a distanza, il libro, e solo saltuariamente, ad esempio in occasione degli esami, si reca in ateneo. L’università tradizionale ha sempre usato la didattica blended in modo riduttivo e poco funzionale. Le nuove frontiere aperte dalla rivoluzione telematica offrono nuove possibilità più articolate e funzionali, ma per fruirne bisognerà superare i ritardi culturali che hanno ostacolato lo sviluppo dell’insegnamento per via telematica.
Prof. Enrico Ferri, Unicusano
www.ferrisstudies.com