«Quando si muore, si muore soli» diceva, ma Fabrizio De André solo non ci è stato mai. Come ventitré anni fa, l’11 gennaio del 1999, quando il mondo si fermò con lui alle 22.30 di una sera senza più canzoni. Fabrizio De André, “una via di mezzo tra un cretino e un cantante”, avrebbe detto, che per non rischiare preferiva farsi chiamare cantautore.

Fabrizio De André: l’ansia per una giustizia sociale e l’illusione di cambiare il mondo

Nato a Genova, nel quartiere della Foce il 18 febbraio del 1940 e figlio della odiata borghesia da cui per tutto il tempo concessogli ha cercato di fuggire, ha segnato l’epoca del cantautorato italiano tracciando il solco ai migliori, diventando un modello sia per chi da lui ebbe da trarre, sia per quelli che della musica ne avevano già fatto un mestiere.
Fu l’interpretazione che Mina fece nel 1965 della “Canzone di Marinella” a portarlo sulle bocche del grande pubblico: un fatto di cronaca che si trasformò in una ballata aspra e dolente, dolce e disillusa come gli amori portati via. “Senza di lei sarei stato un pessimo avvocato” raccontava. “Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari – disse un giorno -. L’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane.”

Amori perduti e testamenti, prostitute e invisibili

Dopo di Marinella vennero molte e molti altri, amici fragili, prostitute e criminali fuggitivi. E poi preghiere: come quella in gennaio, scritta di getto dopo la morte di Luigi Tenco e a lui dedicata, anche se esplicitamente si trovò a confessarlo qualche anno più tardi. Amori perduti e testamenti, prostitute e invisibili: l’insegnamento del cantautore è quello di aver cercato ovunque tutti coloro che non volevamo vedere, dargli voce attraverso la voce e infine eternarli in strofe che la società ha scambiato per versi, tanto da inserirli nelle antologie scolastiche.
“Faccio il cantautore, ma qualcuno ha deciso che tutto sommato alcune parole delle mie canzoni andavano bene anche da sole e le hanno messe su queste antologie per questi bambini di undici, dodici anni, facendo un torto a me e soprattutto ai bambini che magari se le devono anche studiare a memoria. Tutto questo frustrando soprattutto il tentativo che ho fatto io, cioè quello di cercare un mestiere che oltre a divertire me facesse divertire anche gli altri. Ora questi bambini poveracci, che non si divertono, saranno costretti a recitare e a recitare ‘Dormi sepolto in un campo di grano, non è la rosa non è il tulipano…’. Bene, la prossima canzone si chiama ‘La guerra di Piero’” – così introduceva nei concerti una delle ballate di guerra che lo avevano consacrato poeta contro la sua volontà.

In direzione ostinata e contraria

In direzione ostinata e contraria, per tutta la vita Fabrizio De André ha indagato la letteratura, riletto la storia, umanizzato la fede, scrivendo canzoni e impostando la vita “in modo da morire con trecentomila rimorsi, e nemmeno un rimpianto”. Oggi, ventitré anni dopo la sua morte, ci troviamo ancora increduli a parlare della sua scomparsa, come se fossimo testimoni di un controsenso immorale: perché De André è il suo patrimonio artistico e culturale e continuerà a essere la voce dell’uomo che si eterna e presta le parole a ogni generazione.

Questa sera, alle ore 20.00, Babylon, il programma culturale di Cusano Italia Tv,  presenta “Speciale De André”. Interverranno il giornalista musicale Claudio Cabona e Francesco Giunta, autore de’ La buona novella in siciliano, un riadattamento di uno degli album più importanti del cantautore genovese.