Sorrentino torna a casa, letteralmente. Dopo i papi, Andreotti, Berlusconi, il regista Premio Oscar per La Grande Bellezza (vedremo quest’anno se riuscirà a replicare l’impresa) per la prima volta propone un film personale, fortemente autobiografico, inedito nella ricerca dell’emozione piuttosto che della perfezione estetica. È stata la mano di Dio, ora in sala e dal 15 dicembre su Netflix, è un racconto di formazione che ripercorre la difficile storia familiare del cineasta partenopeo, potente catalizzatore del suo genio artistico.

La trama

SorrentinoSiamo negli anni ottanta. Fabietto è il terzo figlio di Saverio (Toni Servillo) e Maria, coppia napoletana medioborghese che nonostante i problemi coniugali si dimostra sempre affiatata e vitale. Il ragazzo è un adolescente timido e introverso, molto incerto sul da farsi una volta diventato grande. Sorrentino introduce il suo alter ego cinematografico attraverso una coloratissima galleria di personaggi grotteschi e divertiti, tutti parenti e amici, uniti da legami di sangue ma soprattutto dal culto indiscusso di Maradona, al tempo prossimo ad unirsi al club della città. Tra loro c’è la provocante zia Patrizia, bella quanto psicolabile – che sarà protagonista di un’esoterica scena d’apertura – la ruvida quanto spassosa signora Gentile, la vecchia Baronessa, Mario il portiere, lo zio che vede i gol come “atti politici”.

Poi il racconto prende un’altra piega, accade l’irreparabile (e il miracolo, la mano di Dio). Fabietto, ormai abbastanza grande, diserta l’invito dei genitori a trascorrere il weekend nella casa di Roccaraso per seguire in trasferta il Napoli e il suo idolo Maradona. Quella partita lo salverà da un infausto destino. Di lì a poco, infatti, verrà raggiunto insieme al fratello dalla tragica notizia: Saverio e Maria sono morti per colpa di una stufa, avvelenati da una perdita di monossido di carbonio. Il ritratto di una Napoli gioiosa lascia spazio alla nuova triste realtà, “deludente” come non mai, da cui Fabietto deve difendersi. La salvezza la troverà nel più potente degli anestetizzanti, il cinema.

Un altro Sorrentino

A questo punto la mano di Paolo Sorrentino è quasi irriconoscibile, depurata dai tipici virtuosismi e artifici visivi che sempre ne popolano l’opera. Un gigantesco lampadario di cristallo infranto in una sala diroccata piena di raffreschi, San Gennaro in limousine, la donna con l’hoola hoop, lo sceicco con moglie modella che si aggira per Capri nella notte, tutte scene sorrentiniane memorabili che abbandoniamo nel primo tempo, perché poi c’è spazio solo – stranamente – per la semplicità delle emozioni, per l’empatia, il sentimento. È così che Sorrentino si “riunisce”, come esorta Antonio Capuano, mentore artistico del non più giovane Fabietto: “non ti disunire Fabiè!”.

È stata la mano di Dio è un film d’autoanalisi, intimo, catartico, nonché estrema sintesi della personalità del suo autore che ha scelto di darlo alla luce soltanto ora, raggiunta la maturità, superata la soglia dei cinquanta. L’età giusta per rimaneggiare le proprie radici, la sua Napoli e l’annesso trauma. Sorrentino chiude il cerchio, e forse anche un ciclo artistico.