Fino all’aprile del 2003, data a cui risale il decreto Moratti per l’ istituzione delle università telematiche, gli Atenei in Italia, come ne resto del mondo, si dividevano in due sole categorie: i pubblici e i privati. Questa distinzione è quella che vige anche oggi e si riferisce alla proprietà degli atenei, non certo alla docenza, alla didattica o alla ricerca. Su queste ultime vige in Italia un’unica normativa, ad esempio i docenti devono essere nominati e selezionati con le stesse procedure, da commissioni nazionali nominate dal MIUR. Allo stesso modo, la valutazione della ricerca, cioè della “qualità” della produzione scientifica di un docente, è fatta dall’ANVUR, un’agenzia del MIUR che con gli stessi criteri valuta i docenti, a prescindere dall’ateneo nel quale insegnano. Potremmo sintetizzare la questione in questi termini: in Italia l’università è un istituto di diritto pubblico, ma la proprietà può essere privata o pubblica, per tutto il resto non ci sono differenze di rilievo.

DIDATTICA EROGATIVA E DIDATTICA INTERCONNESSA

Almeno fino al decreto dell’aprile del 2003, dell’allora ministro del MIUR, Letizia Moratti, che introduceva una novità per più versi rivoluzionaria: istituiva una nuova modalità di insegnamento, per via telematica, “a distanza”: le “università telematiche” e “l’insegnamento a distanza”, appunto.

La grande novità, infatti , era ed è rappresentata dalla modalità di insegnamento, con tutte le implicazioni connesse. L’insegnamento non veniva più “erogato in presenza”, cioè in uno stesso ambiente fisico, un’aula o un laboratorio, dove alla stessa ora dovevano trovarsi docente e studenti. L’insegnamento in presenza è prevalentemente “erogativo”, aggettivo per più versi curioso ed ambiguo, che fa pensare ad un insegnamento “farmaco”, che si deve inoculare ad uno studente paziente. Non proprio quello che pensava Plutarco a proposito del metodo didattico, quando notava: “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”. “In presenza”, infatti, quasi sempre sta solo ad indicare che l’insegnamento è erogato a studenti che si trovano a distanza ravvicinata, nello stesso ambiente fisico del docente. La presenza non indica quasi mai un’interazione fra docente e studenti, anche quella più elementare, ad esempio la richiesta al docente di chiarimenti su quanto sta dicendo. Di norma, soprattutto nella didattica di materie umanistiche come Giurisprudenza o Lettere e Filosofia, il docente arriva ad una certa ora, svolge una lezione/conferenza, poi saluta e se ne va. Un ciclo di lezioni è, di fatto, un ciclo di conferenze di cui, per giunta, non resta traccia. Tutt’al più lo studente può registrare per suo conto questa o quella lezione. In breve, l’insegnamento tradizionale, quello di un docente della Humboldt Universitāt nella Berlino del 1840 o di un’università italiana come la Sapienza o la Federico II nel 2021, è lo stesso e consiste in un ciclo di lezioni/conferenze di un docente che parla ad un pubblico più o meno numeroso di studenti in un’aula più o meno grande. La principale differenza nella didattica consiste spesso solo nell’uso di un microfono o di una lavagna luminosa: il tempo sembra essersi fermato nelle aule universitarie.

DIDATTICA FRONTALE: UNA PRESENZA MINORITARIA E SOLO FISICA

In fin dei conti questa tanto apprezzata presenza sembrerebbe ridursi a poca cosa, alla condivisione di uno stesso ambiente, fra docente e studenti che respirano la stessa aria: pratica naturale, ma poco consigliabile soprattutto in epoca di pandemia, che ha comportato come prima misura di sicurezza il divieto di concentrare nelle stesse aule docenti e studenti universitari.

Non una gran perdita, almeno in quei diffusi casi, la maggioranza, in cui insegnare significa fare conferenze ad un pubblico non sempre attento di studenti. Eppure la presenza , la compresenza fisica di studenti e docenti per il rito della lezione, sembra essere particolarmente apprezzata e ritenuta un segno di distinzione, un attestato di qualità e di primato. Sta ad indicare un essenziale elemento identitario, un indice di qualità della didattica, dell’apprendimento e della stessa università.

Se la presenza è sinonimo di università e di qualità i dati di questa presenza dovrebbero essere noti, si dovrebbe conoscere la percentuale dei frequentanti rispetto al totale degli iscritti, le variazioni di tali percentuali in relazione ai periodi dell’anno e al tipo di materie e le variazioni nei diversi anni del corso. In realtà non esistono dati: le università in presenza hanno presenze fantasma che nessuno conosce. I dati sulla presenza degli studenti ai corsi di studio ed alle altre attività didattiche è in parte accertata ed accertabile solo in quelle facoltà o università dove la frequenza è obbligatoria. Ma queste università sono una piccola minoranza, la maggior parte degli atenei non prevedono l’obbligo di frequenza. Per sostenere gli esami non è necessario frequentare i corsi di Scienze politiche, Economia, Ingegneria, Giurisprudenza, Lettere, Scienze della Comunicazione e Scienze dell’Educazione. A questo punto sorge spontanea una domanda, semmai da rivolgere al MIUR: perché si continua a parlare di “lezioni frontali” e “didattica in presenza”?

In mancanza di dati attendibili, ho cercato io stesso di reperire qualche informazione. Mi sono tornati in mente alcuni vivaci interventi della mia gioventù ribelle quando, studente di Giurisprudenza alla Sapienza, durante una lezione, ad un docente che lamentava la scarsa presenza degli studenti alle attività didattiche replicai: “ Vi lamentate che frequentiamo poco le vostre lezioni, ma se l’insieme degli iscritti a Giurisprudenza frequentasse tutti i corsi, gli spazi della facoltà non sarebbero neanche sufficienti per garantire i servizi igienici”. Il docente mi rispose con un sonoro silenzio perché sapeva che avevo ragione.

INSEGNAMENTO IN PRESENZA E MANCANZA DI RISCONTRI

Come dicevo più sopra, mi sono messo alla ricerca di qualche dato sulla percentuale delle frequenze nelle università che si definiscono “in presenza”. Sul web non ho trovato dati. Mi sono rivolto allora all’avvocato Fabio Santella, un dirigente dell’Unicusano tra i maggiori esperti in materia universitaria. Mi ha confermato che non ci sono dati ufficiali. Le università in presenza non hanno la certificazione della presenza che si attribuiscono. Ho cercato di fare una verifica alla spicciolata, per così dire. Di vedere la relazione esistente fra numero degli iscritti della facoltà di Giurisprudenza della Sapienza e l’estensione degli ambienti in metri quadrati. Scrivo a [email protected], per richiedere numero degli iscritti a Giurisprudenza e a quanti metri quadri ammonta la Facoltà nel suo insieme. Mi dicono che devo rivolgermi a [email protected] per la seconda parte della questione. Questo secondo ufficio mi rinvia ad un terzo che si occupa, fra l’altro, del calcolo delle metrature dei diversi ambienti universitari. Quest’ultimo ufficio neanche mi risponde. L’unico dato che riesco a reperire dal primo ufficio, solerte e disponibile, è il numero degli iscritti a Giurisprudenza, circa seimila, che dovrebbero frequentare gli stessi ambienti costruiti nel 1935, quando gli iscritti erano meno della metà degli attuali.

Faccio un altro tipo di ricerca, più semplice ma non meno efficace. Negli ultimi venti anni gli esami della Facoltà di Giurisprudenza non si sono mai tenuti nello stesso giorno, per il semplice motivo che le aule a disposizione non sarebbero state sufficienti, anche se ad una sessione d’esame si presentano al massimo il 25% degli aventi diritto. Lo stesso dicasi delle lezioni, che non si tengono mai in contemporanea perché non sarebbero sufficienti le aule a disposizione. In breve, le università in presenza non sono tali perché i frequentanti sono una minoranza; questa minoranza, per giunta, deve frequentare in modo frazionato nel tempo, altrimenti gli spazi disponibili non potrebbero contenerla.

La definizioni “Università in presenza” e “didattica frontale” appaiono pertanto velleitarie e fantasiose, meglio sarebbe classificarle come “università con una minoranza di frequentanti”. Non è questo che serve alla nostra comunità ed ai nostri giovani, minoranze di studenti che in silenzio ascoltano cicli di conferenze, in aule condivise .

Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto all’UNICUSANO www.ferrisstudies.com