Nei giorni in cui esce il suo documentario è il momento di celebrarne la sregolatezza. La follia spaventa tutti. Dare adito al lato più nascosto del proprio animo fa sempre paura. Non a tutti. Non a Dennis Rodman, re dei rimbalzi americani.  C’è un passaggio cruciale nell’episodio dedicato a “The Worm”, un momento che ci fa capire quanto Rodman sia stato iconico.

“Non ti sei un po’ pentito di aver lasciato questa tua immagine ai posteri?”
“No, l’ho creata io”

Qui ruota tutto. Perché in Rodman, che piaccia o meno ai tecnici, non vince mai il lato sportivo. Stiamo parlando pur sempre di uno che ha vinto cinque anelli tra Detroit Pistons e Chicago Bulls, ma quando si parla di Rodman non si pensa al trionfo, al successo, bensì ai tanti colori tra i capelli. Resta impressa la faccina sorridente – “Smile” – sul suo capo. Un marchio indelebile. Voluto, cercato, che ha reso “The Worm” iconico.

La follia di Dennis Rodman

Oggi torna alla ribalta per un semplice motivo. Lui la follia l’ha cercata e l’ha domata. Invece di esserne sopraffatto ne ha fatto un suo punto di forza, facendolo vivere in pace con sé stesso. Si è fatto travolgere dalla follia per poi farla totalmente sua. Risultato, successi senza sosta e rimbalzi su rimbalzi. Erasmo da Rotterdam, nel suo “Elogio della follia”, traccia il quadro del pazzo, quello che è e come si comporta. Un contributo eccelso, figlio di un’epoca che forse abbiamo dimenticato. Erasmo ci gioca, disegnando contorni sconosciuti, però poi raccomanda:

“Spesso anche un pazzo parla a proposito”

Questa frase si potrebbe tranquillamente appiccicare a Dennis Rodman, come uno dei suoi tanti tatuaggi. Una frase detta apposta: “Sono io che ho voluto tutto questo”. Eccentrico a tal punto da oscurare Michael Jordan, ma solo per qualche istante. Rodman, l’uomo che ha accettato la follia come punto di forza, facendola inchinare ai suoi piedi.