Il nuovo The French Dispatch è forse l’opera più andersoniana di sempre. Un omaggio al giornalismo di una volta, nonché alla parola scritta, che è un susseguirsi frenetico di quadri, storie, colori, divi hollywoodiani, dettagli impercettibili.
La trama di The French Dispatch
Il film a episodi si snoda lungo le vicende che coinvolgono i redattori del The French Dispatch, fantomatica pubblicazione americana che si rifà chiaramente al The New Yorker, e da il titolo alla pellicola. Il direttore è Bill Murray, collassato nelle prime sequenze. Dopo la sua dipartita ha lasciato disposizioni per un ultimo numero di addio, che insieme al suo necrologio propone una raccolta dei migliori articoli della testata: gli strambi reportage tematici che vedremo inscenati sullo schermo, letti, raccontati, a volte illustrati dalle penne del giornale. Il primo è un tour in bicicletta per le strade di Ennui, cittadina francese fittizia, sede del quotidiano. Owen Wilson, cronista in bicicletta, racconta i luoghi più caratteristici costruendo un sincopato confronto visivo tra passato e presente. Poi è la volta di Tilda Swinton e del celebre artista Moses Rosenthaler interpretato da un Benicio del Toro schizzato e galeotto. Mentre sconta la pena da sfogo al suo estro artistico dipingendo nudi astratti della secondina di cui si è invaghito, catturando l’attenzione di un mercante d’arte condannato per evasione fiscale e deciso ad arricchirsi rendendolo celebre. Ancora, un’algida Frances McDormand inviata a seguire una protesta sessantottina guidata dallo studente Zeffirelli (Timothée Chalamet), con cui finirà a letto mentre ne corregge il manifesto, in barba alla neutralità giornalistica. Infine Jeffrey Wright che, invitato a cena dal commissario di polizia per assaggiare i piatti del leggendario chef poliziotto Nescaffier, finisce nel bel mezzo di una caccia all’uomo: quella sera il figlio del capo viene rapito.
Un esercizio di stile
Wes Anderson ci propone una carrellata di storie che non sono che un pretesto, ora più che mai, per dare libero sfogo alle sue personalissime fantasie. Un esercizio di stile? Senza dubbio. Ma il cinema per il regista texano è prima di tutto forma e rigore visivo. Certo la serialità che impone il film a episodi, in aggiunta al tipico humor, rende tutto ancor più freddo e veloce. Il pubblico fatica a legarsi ai tanti, troppi, personaggi che sfilano come figurine, nonostante l’esperienza sia la più immersiva possibile. Visivamente delizioso, come sempre inappuntabile, con performance piacevolmente eccentriche e bislacche, rispetto ai precedenti è un film per super fan più che da spettatore medio, a rischio mal di testa. Si tratta di vederlo e rivederlo, più che capirlo, scomponendone le scene più belle e sfuggenti, con i loro dialoghi serrati e la miriade di grandi attori che le popolano. In definitiva The French Dispatch oltre che un elogio (funebre) alla stampa è la perfetta sintesi dell’universo andersoniano.