Freaks Out è la grande scommessa di Gabriele Mainetti. Il regista romano a 6 anni dal suo strepitoso esordio con Lo chiamavano Jeeg Robot, dirige – partecipando anche alla scrittura e alla colonna sonora – un colossal dal budget faraonico per gli standard italiani, ben 13 milioni di euro, ambientato in piena seconda guerra mondiale.

La trama

È il 1943, i nazisti prendono Roma. Nella prima sequenza assistiamo a un mirabolante spettacolo del Circo Mezzapiotta, retto dall’ebreo Israel (Giorgio Tirabassi), che vede esibirsi magistralmente quattro freaks mentre fuori cadono le bombe: Matilde, una ragazza mutante che sprigiona elettricità capace di fulminare al sol tocco, Cencio (Pietro Castellitto), il ragazzo albino domatore di insetti, Fulvio (un irriconoscibile Claudio Santamaria) ricoperto di peli e dalla dalla forza di Hulk, Mario il nano pagliaccio nonché calamita umana. Ma sarà la dipartita del personaggio di Tirabassi, scomparso con l’incasso dopo aver proposto la traversata verso l’America, a mettere in moto la storia. Senza più un palcoscenico, la strana congrega si separa. Mentre Matilde si lancia alla ricerca di Israel e trova asilo tra i partigiani più scalcinati, Fulvio, che ha l’aspetto più appariscente tra i quattro e per questo a suo agio solo se circense, convince gli altri ad unirsi all’alternativa tedesca, il Zircus Berlin, feudo di un certo Franz (Franz Rogowski già visto in Undine) pianista con 12 dita che è in realtà il nazista più folle e sanguinario. Questo, dotato di chiaroveggenza, ha visto il suicidio di Hitler ed è alla disperata ricerca proprio dei freaks, secondo le sue visioni unica chance per salvare il Reich.

Cosa c’è dietro Freaks Out

Un’epopea fantasy, eroica, intrisa di dramma e ironia, che ha come sfondo l’Italia fascista. Freaks Out ci regala 140 minuti di grande intrattenimento, dove la fantasia innerva la storia e il respiro si fa decisamente internazionale rispetto al primo esordio. Sotto un profilo tecnico il film vanta un’effettistica più che di qualità, ben al di sopra della media italiana. Ed è per questo un progetto che atipico è dire poco, l’industria nazionale è sempre avversa a simili sforzi produttivi. Ma tra le mille difficoltà, intoppi, crisi di budget, una post-produzione lunga un anno, la pandemia, Gabriele Mainetti ci ha mostrato che – come dice Israel – l’immaginazione può diventare realtà. E il risultato è esaltate. 

La luce infondo al tunnel Freaks Out l’ha vista a Venezia78, dove è stato presentato in concorso per arrivare in sala due mesi più tardi. Fondamentale la poetica, l’immaginario, l’idea di base rimane la stessa del film che lo ha preceduto: l’eroe non nasce eroe, ma ci diventa. E così la storia si fa quasi prequel di Lo chiamavano Jeeg Robot. Ciò che è davvero sperimentale è piuttosto la commistione di generi e suggestioni operata: la guerra, il western, la fiaba, la love story, l’action, lo humor. Il rischio, al solito, è quello di perdersi in un dedalo di possibili strade, senza prenderne una. Anche la linea che separa i buoni dai cattivi in fondo è più sfumata di quanto sembri. Franz, un Chaplin mancato, vive gli stessi problemi dei nostri freaks: è speciale e fatica ad accettare la propria diversità, quando non suona i Guns n’ Roses al pianoforte. Sotto questo aspetto non è poi tanto diverso da Matilde, bambina innocente che si tramuta in angelo vendicatore sul finale.

Chiaramente c’è anche del già visto, se da un lato c’è la Marvel dall’altro la volontà di riscrivere il passato ricorda molto Tarantino, e per certi versi l’approccio farsesco al nazismo richiama pure il recente Jojo Rabbit, ma Freaks Out almeno in Italia resta senz’altro un unicum, rischioso quanto ambizioso, nonché un precedente necessario.