Al 25′ del primo tempo sul tabellino non era apparso nemmeno un numero. Tutto fermo. 0-0. Uno pensa a una prolungata fase di studio, che le due squadre in campo l’abbiano messa sul guardingo e sul meglio non prenderle. Poi guardi meglio e capisci che il pallone è quello ovale, che le fasi di studio – qui – sono a base di percussioni, e che guardingo e attendista son due concetti incompatibili con il rugby e la sua filosofia.
Un rugby che non t’aspetti
L’anomalia resta. Perché a contendersi quel pallone, fin lì, sono state la Nuova Zelanda e l’Italia. Gli All Blacks, leader del ranking reduci da 12 vittorie su 13 incontri giocati negli ultimi 11 mesi, e l’Italia reduce invece da trenta e più sconfitte consecutive. Anni, non mesi. Ma è un’anomalia che gli Azzurri di Kieran Crowley hanno saputo rivestire di stupore e vigore, placcando tutto quel che c’era da placcare, avanzando e sostenendosi, costringendo i tutti neri ad errori ripetuti figli di un nervosismo davvero insolito per loro. Le tre marcature con cui gli All Blacks hanno chiuso il primo tempo fissando il punteggio sul 6-20, nulla toglievano a un’Italia capace di reagire e di non perdersi d’animo, rientrata negli spogliatoio con una certezza nuova addosso e l’interrogativo di sempre a minacciarla: essersi ritrovati, mantenere quell’atteggiamento per non sfarinarsi di nuovo.
La risposta è arrivata ventidue minuti dopo, con l’Italia capace di marcare altri tre punti e gli All Blacks ancora a secco. Di più: nervosi, imprecisi (16 falli!), costretti a far abbondantemente ricorso a una panchina imbottita di qualità nella speranza di far così valere il loro maggior tasso tecnico. Individuale, si badi bene, perché quanto a collettivo – e il rugby sul collettivo si fonda – l’Italia aveva dimostrato di saper rendere davvero duro il pomeriggio romano dei suoi avversari. Puntuale, un minuto dopo la meta di Reece allargava il gap tra le due squadre dando il là all’ultimo quarto di partita, quello più importante, quando persa ogni velleità di risultato occorre mantenere alti concentrazione e morale per non vedersi surclassati.
Quello che resta
Alla fine gli All Blacks segneranno altre tre mete. Di forza, di talento, di rabbia. Ma il punteggio finale, in patria, non basta a nascondere la mediocrità dello spettacolo offerto, “il peggiore dell’anno” per il New Zealand Herald. Per noi il 9-47 finale nasconde molti aspetti positivi su cui riflettere e costruire in vista del futuro. Il primo è una solidità mentale cui eravamo disabituati e che non è facile ricostruire in assenza di vittorie; poi abbiamo un capitano, Michele Lamaro, e con lui una leadership più diffusa in campo, d’esempio e d’ispirazione nei momenti delicati del match; infine la condizione fisica, finalmente adeguata e in grado di sostenere l’intensità dei test match internazionali. Sarà stata solo adrenalina, il primo passo di un nuovo corso? E se invece fosse stata una partita approcciata come una gita dai tre volte campioni del mondo? Sfide come quelle contro gli All Blacks son le più semplici da preparare. L’Argentina, tra sette giorni, scioglierà il dubbio e ci dirà qualcosa in più di noi.