Presentato a Berlino, Il caso Minamata di Andrew Levitas è la vera storia – raccontata, sembrerebbe, anche con una certa sincerità e precisione – di Eugene Smith (Johnny Depp), icona del fotogiornalismo americano che nel 1970 è ormai nella fase terminale della sua carriera. In crisi personale e professionale, logorato dalla vita di inviato di guerra, al verde, attaccato alla bottiglia, in rotta con i figli e la rivista Life per cui confeziona reportage, si è quasi convito a farla finita quando si ritrova per le mani la tragica storia di un villaggio di pescatori giapponese, Minamata, avvelenata dal mercurio impunemente sversato in mare dalla grande azienda chimica Chiasso. Contattato da un’interprete – la sua futura moglie, consulente per il film – che lo implora di partire e raccontare il fatto, si decide a reagire portando a termine il suo ultimo grande servizio fotografico che include alcuni degli scatti più famosi del ‘900.

Un film di denuncia dai titoli di coda costellati di foto di disastri ambientali recenti, un biopic solido, onesto, vecchio stile, privo di guizzi ma di un’intensa drammaticità, “Minamata” tratto dal libro omonimo dei coniugi Smith approda direttamente in streaming su Sky e NowTv. Forse a riconferma del triste status di stella appannata del suo interprete e produttore. Johnny Depp, accusato di maltrattamenti dalla ex moglie, al momento reduce dalla fallimentare causa intentata contro il Sun per averlo definito un “picchiatore di mogli”, per le sue vicissitudini ha già gridato al complotto – magari anche giustamente. “Sono stato condannato da Hollywood prima ancora che dalla legge” commenta riguardo all’ostracismo subito in patria, dove il film non ha una distribuzione. 

Allontanato dal prossimo Pirati dei Caraibi, rimpiazzato in Animali Fantastici, da cinque anni a questa parte Depp è in un momento della sua vita piuttosto simile a quello del suo ultimo personaggio ed è naturale pensare che cerchi redenzione nel ruolo. Geniale, burbero, testardo, un po’ bohémien, Eugene Smith ce lo restituisce come meglio sa fare: in chiave antieroe maledetto, sommerso dal trucco. Una performance in piena confort zone ma azzeccata, in equilibrio perché in perfetta comunione con il resto del film. Con un protagonista che sta al suo posto e lascia parlare la storia, o meglio la macchina fotografica. Tanto spazio è lasciato alle comparse che, realmente affette dalla malattia, ancora oggi portano sulla propria pelle i segni della vicenda. Perché a livello medico da quel disastro ambientale ne derivò addirittura una patologia, la sindrome di Minamata (avvelenamento da mercurio).

Nel film Smith, sempre in preda alle sue contraddizioni, deve riuscire a conquistare la fiducia di una comunità spezzata se vuole documentare le malformazioni causate dai rifiuti tossici, rivelare al mondo l’orrore e sperare di vincere la battaglia contro una malefica corporation, dalla quale subirà gravi rappresaglie. Una storia che celebra e dà lustro alla potenza della fotografia portata in trionfo nell’ultima scena dove si ricrea lo straziante Bagno di Tomoko – pietà moderna che ritrae una madre con in grembo la figlia malata – e restituisce senso al ruolo dei media, a cui spetta la denuncia. Una mission, secondo il personaggio di Depp in forte polemica con l’editoria, ormai da tempo disattesa. L’approccio è sobrio, rispettoso, in linea con la cultura giapponese, per un film d’impegno civico e politico ben costruito sul racconto di veri scatti d’autore, e per questo lontano da titoli come Erin Brockovich e il più recente Cattive acque.