Dopo il biopic su Leopardi, Il giovane Favoloso del 2014, e la trasposizione de Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo, Mario Martone torna a Venezia (in concorso) con il ritratto di un’altra storica personalità della cultura italiana, nonché capostipite della stessa famiglia De Filippo: Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), attore commediografo e impresario reso celebre dalla sua maschera napoletana Felice Sciosciammocca, erede diretto di Pulcinella. Il film Qui rido io, ambientato a inizi Novecento nella vivace Belle Époque – il nome viene dall’effigie impressa sulla villa degli scarpetta – inizia proprio con la rappresentazione di Miseria e nobiltà. Scopriremo dopo un rapido giro dietro le quinte che l’attività teatrale è il potente collante di una complessa famiglia allargata composta da moglie, amanti, figli e nipoti (che sono in realtà prole illegittima) tra i quali Eduardo De Filippo bambino, mai riconosciuto. Una congrega che all’occorrenza si trasforma magicamente in compagnia teatrale dal momento che ogni membro della famiglia ricopre un ruolo, che sia sul fronte creativo/attoriale o nella gestione finanziaria.
Le cose si complicano quando a Roma Scarpetta assiste a La figlia di Iorio, nuovo dramma di D’Annunzio e decide di realizzarne una parodia (o plagio?) comica. Dall’ambiguo assenso verbale del Vate nasce un contenzioso legale che costituirà la prima causa italiana sul diritto d’autore. Messo sotto accusa dalla società italiana degli autori ma difeso da Benedetto Croce, lo Scarpetta di Servillo, campione di incassi ma vicino alla fine poi sancita dall’arrivo del cinematografo, si confronta con il dibattito del tempo sulla natura del teatro dell’arte. Magnifica l’autodifesa appassionata in sede di processo, vera esibizione comica riprodotta brillantemente da Servillo nella quale Scarpetta rivendica il diritto alla satira e sbeffeggia D’Annunzio, l’artista che dice di “parlare al popolo” pur essendo tutt’altro che popolare.
Da Chaplin a Totò passando per De Filippo, un’eredità artistica importante che però non trova corrispondenze sul piano umano. Il ritratto, infatti, sotto questa luce non è dei più lusinghieri. Superbo, arrivista, marito inqualificabile, padre padrone, Scarpetta diventato ricchissimo grazie al monopolio della risata paga pegno nel governare questo nucleo familiare ingovernabile e disfunzionale a cui si è messo a capo. E qui Martone lavora anche di immaginazione. Cosa le donne – piuttosto solidali tra loro nella gestione di questo ingombrante patriarca – e i figli pensassero su Scarpetta non è dato saperlo. Perfino De Filippo che qui vediamo trascorrere le notti a ricopiare commedie e a scriverne di sue, innamoratosi della libertà che il teatro regala dopo aver preso il testimone dalla sorella del ruolo di Peppiniello in Miseria e nobiltà, si è sempre categoricamente rifiutato di parlarne. Ed è a lui che Martone dedica i titoli di coda, figlio d’arte di quell’ambiguo ma brillante padre-zio che diventerà di lì a breve uno dei più grandi commediografi al mondo.
Con un ricco cast che riunisce alcuni dei volti più noti della scuola napoletana e una colonna sonora efficace, giocata sul sentimentalismo, “Qui rido io” è ben più di un biopic. È piuttosto una questione di paternità, artistica e biologica. Scarpetta padre del teatro napoletano e, più in generale, della napoletanità?