Siamo attorno all’anno 10mila e la società del futuro, a dispetto di quanto ci si aspetterebbe, ha caratteri fortemente feudali: c’è un imperatore che domina lo spazio conosciuto e un sistema di grandi casate che amministra le province, o meglio i pianeti. In particolare si distinguono per ricchezza e potenza la famiglia degli Harkonnen, crudeli conquistatori, e quella degli Atreides, ben più nobili e morali. L’autorità centrale decide di sfruttare questa polarizzazione, mettendo in piedi una situazione di potenziale conflitto che possa danneggiare e indebolire entrambi. Il desertico pianeta Arrakis, anche noto come Dune, ambitissimo perché ricco di un’inestimabile spezia-droga che allunga la vita e alimenta le navi spaziali, è da secoli nelle mani degli Harkonnen ma viene improvvisamente riassegnato e messo sotto la tutela dei loro diretti rivali. Mossa che palesa fin da subito una pericolosa congiura, spinge il giovane Paul, erede di casa Atreides, a prende in mano le sue responsabilità.
È la storia di Dune, immaginifica opera capostipite del genere fantascientifico alla quale è debitore persino Star Wars. Il romanzo a firma di Frank Harbert, dalla sua pubblicazione nel 1965 ha ispirato diverse trasposizioni – tra cui quella di Lynch nel ‘84 – più o meno riuscite o solo tentate. Ma il cerchio sembra chiudersi quest’anno, quando alla 78esima mostra del cinema di Venezia viene presentata Fuori Concorso l’ultima poderosa e avvincente avventura di Denis Villeneuve, regista di Arrival e Blade Runner 2049. Un blockbuster autoriale che si propone, finalmente, come la migliore delle versione cinematografiche possibili dell’epopea di Harbert.
Ambientazioni affascinanti, prima aride poi siderali, delineano un immaginario futuristico si, ma dal respiro medievale. Mai fracassone, sempre elegante, il racconto (esistenziale) di Dune è dominato da religiosità, premonizioni, presagi. Una dimensione spirituale venata di simbologie cristologiche che unisce popoli, mondi e destini diversi, per una science fiction tutt’altro che popolare. Il target da pubblico di massa, infatti, non è che di facciata. A fare da volano c’è un cast di stelle, tra Zendaya e Javier Bardem troneggia l’ottimo Timothée Chalamet, perfetto per il ruolo di profeta e futuro regnante erede di un grande lignaggio, ma anche certezza al botteghino. Gadget da 007, tute in stile Guerre Stellari, vermoni del deserto king-size contribuiscono a trarre in inganno, lasciando pensare a un adattamento che metta al centro l’azione.
Il cuore del film è, piuttosto, la profezia messianica che riguarda il giovane rampollo di casa Atreides interpretato da Chalamet. Esile e longilineo, trae il suo potere non tanto dall’addestramento all’uso delle armi quanto dalle straordinarie abilità mentali ereditate da sua madre (Rebecca Ferguson) che gli permettono di trascendere spazio e tempo. A tormentarlo ci sono sogni e visioni, alimentate dopo l’arrivo su Arrakis dalla stessa spezia, che ci lasciano intravedere il suo ruolo chiave nel determinare i destini del cosmo e l’incontro con il personaggio di Zendaya, una fremen (nativa del luogo) che assumerà maggior importanza nel proseguo della storia. È già perché il maestoso Dune, con le sue quasi 3 ore non è certo autoconclusivo, anzi è dichiaratamente un primo atto come recita il titolo originale.
Il regista sceglie di riprodurre la complessità del romanzo rinunciando a semplificazioni e alleggerimenti e nel farlo divide in due il racconto concentrandosi per il momento sulla prima metà del libro, suggestiva quanto introduttiva. Il film, infatti, ci lascia proprio sul più bello. Spettacolare, lento, dilatato, visivamente virtuoso ma mai autocompiaciuto, il Dune di Villenueve getta le basi per ciò che verrà. Del resto, come recita l’ultima battuta, “questo è solo l’inizio”, un inizio da gustare rigorosamente in sala.