Alessandro Celli immagina per il futuro di Taranto una città fantasma e fuorilegge, cinta dal filo spinato, isolata dal resto del paese perché evacuata a causa dalla contaminazione delle acciaierie. All’interno di questa dimensione distopica e postapocalittica, pochi disgraziati abitanti (sopra)vivono nella miseria e nella violenza. Pietro e Christian sono due tredicenni orfani, cresciuti insieme, grandi amici che condividono il sogno di entrare nelle Formiche, una delle gang criminali che si contende il dominio del territorio alle spalle di una polizia “speciale” inerme. Le Formiche sono per lo più bambini ma a capo c’è Testacalda, un carismatico e ambiguo Alessandro Borghi. Prima affettuoso poi violento, col taglio da mohicano e i baffi a manubrio, inventa un cattivo che non sia solo un leader ma anche un (discutibile) maestro per giovani anime allo sbando, derubate del futuro e dell’innocenza. Sono loro, Dennis Protopapa e Giuliano Soprano, infatti, i veri protagonisti della storia. Alla prima esperienza cinematografica, scelti per la loro naturalezza e genuinità, nel film possiedono una cosa sola, la loro amicizia. Un bene prezioso che verrà presto messo in pericolo da questa baby gang/setta che all’inizio ammette solo Pietro, detto Mondocane, lasciando indietro Christian, schernito col soprannome Pisciasotto, perché soffre di crisi epilettiche.
Quello di Celli è un esordio di genere con interessanti sperimentazioni, coerente con l’idea di cinema del produttore Matteo Rovere – l’obiettivo del suo Primo Re era proprio quello di adattare i linguaggi tipici dell’immaginario d’oltreoceano ai nostri territori – nell’impiantare l’azione su un substrato di realtà nostrana: la vicenda dell’Ilva, i quartieri Tamburi e Cittadella, Roma che non è più capitale, la fuga che dopo “l’evacuazione” – ironia della sorte – è pensabile solo verso l’Africa. Le atmosfere sono torbide e grigie, a metà tra Gomorra e Suburra, passando per La paranza dei bambini, ma in realtà c’è un po’ di tutto: Oliver Twist, Blade Runner, Mad Max, Fuga da New York. Un mondo nuovo, pessimista e rassegnato sulla cui spiegazione il regista non si sofferma troppo, ci basti sapere che prevede una Taranto vecchia in preda alla guerriglia e il degrado da favela brasiliana e una nuova, laccata e artificiale nel voler ricreare la normalità perduta. Ma c’è anche un ideale: bonificare e ripristinare. Questo in realtà ha in mente il personaggio di Borghi, forte di un’umanità imprevista, mentre si inserisce tra i due amici di sempre per sceglierne uno da incoronare nuovo pupillo.
Muri e barriere, salute, lavoro, relazioni, ricerca della libertà, “Mondocane” presentato a Venezia come unico titolo italiano nella Settimana della Critica, si rifà al nome di un negozio dato alle fiamme come rito di iniziazione ma è anche e soprattutto un’imprecazione, grido di dolore contro una realtà opprimente. Con pochi precedenti in Italia, il film di Celli fa bene nel coniugare denuncia sociale e spettacolo, e nonostante una sceneggiatura troppo spesso sbrigativa può vantare un finale particolarmente intenso e ben eseguito.