Cassie ha trent’anni e nessun progetto per il futuro. Lasciati gli studi di medicina ora lavoricchi come barista mentre si appoggia ai suoi genitori, ma nasconde una doppia vita: ogni sabato sera si aggira per locali fingendosi ubriaca marcia, persa a tal punto da venire abbordata da qualche “bravo ragazzo” che si offra di riaccompagnarla a casa, e chissà cos’altro. Un gioco pericoloso, una condotta rituale che nasce come reazione a un passato doloroso. Un trauma, infatti, ha segnato per sempre la sua vita e quella di Nina, la migliore amica dei tempi del college vittima di uno stupro e poi morta suicida. L’incontro con Ryan, anche lui ex studente, mette Cassie di fronte a un bivio. Chiudere con il passato facendo pace con l’altro sesso, oppure andare fino in fondo e ottenere la propria vendetta?
Un thriller dai tanti colpi di scena ma anche un revenge movie in tinte pop, con l’anima della black comedy più eccentrica – difficile ingabbiarlo in unica categoria – il film che segna l’esordio alla regia di Emerald Fennell non può essere più attuale. Candidato a 4 Golden Globes e 5 Oscar, conquistando quello per la sceneggiatura originale, Una donna promettente con apparente leggerezza si scaglia contro la cultura dello stupro. L’allegra colonna sonora, i colori pastello, i costumi geniali nascondono, infatti, la cruda raffigurazione di un sistema predatorio e di sistematica prevaricazione, ammantato dalla retorica della “ragazzata” alcolica e del “se l’è cercata”. La Fennell qui racconta i cosiddetti “stupri di serie B”, quelli che chiamano la donna a difendersi e giustificarsi di fronte alla violenza maschile, sminuita e declassata a innocente divertimento. Il sentire comune, infatti, vede la vittima complice, colpevole di essersi resa vulnerabile, dimenticando che la mancata espressione di assenso equivale al dissenso.
Vero e proprio manifesto MeToo, il film sposa una tesi estrema ma tutt’altro che smentita dai fatti: dietro ogni bravo ragazzo si nasconde un potenziale violentatore, e così non resta che prendere le dovute precauzioni. Quella di Cassie è, infatti, quasi un’attività pedagogica oltre che un progetto di vendetta alla Kill Bill: dare una bella lezione all’avventore di turno mettendolo difronte al suo squallore (se serve anche a colpi di cric in caso di catcalling stradale) nella speranza che se la ricordi.
Nessun personaggio maschile la passa liscia, tantomeno chi è “solamente” complice e per questo crede di essere migliore. Anzi, più in generale non la passa liscia proprio nessuno, senza distinzioni di sesso. Infatti tra i vari personaggi minori corresponsabili del fattaccio avvenuto anni prima, oltre all’avvocato e ai genitori del violentatore c’è anche la preside della facoltà, colpevole di aver insabbiato il tutto per non rovinare il roseo futuro del suo studente.
Da qui l’ossessione della protagonista, una fantastica Carey Mulligan impegnata in retate del sabato sera che non la soddisfano, ma anzi la rendono apatica e in cerca di qualcosa di più per rispondere a quel desiderio di giustizia che la assale. L’occasione arriverà con la notizia dell’addio al celibato di Al, il ragazzo che abusò di Nina.
Lo stupro come sistema di potere a cui può concorrere l’intera collettività, un tema non più confinato nelle aule di tribunale ma molto politico per un film che è davvero figlio del suo tempo. Il concept, infatti, nasce nel 2017, per venire poi rimodulato dalla casa di produzione di Margot Robbie, grande amica della Fennell. Originariamente la protagonista mostrava sulla pelle i segni dei suoi incontri pericolosi e il finale era pensato come un vero pugno allo stomaco, ma l’incredibile twist (narrativo e ideologico), forse, frutto della mediazione non può deludere.