Dolorosa odissea nella mente di un malato d’Alzheimer, The Father è il brillante e premiatissimo esordio alla regia di Florian Zeller. L’autore francese ha preso in mano una sua vecchia pièce del 2012 adattandola per il cinema, trasposizione difficile ma ottimamente realizzata e perciò premiata con l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale. Quella di Zeller è, infatti, un’avventura cinematografia che ha fatto faville agli ultimi Academy Awards e tra le sei candidature spiccava anche e soprattutto quella per il miglior protagonista, un Anthony Hopkins straordinario in questo thriller che scava nei dramma della terza età. Ultimo riconoscimento consegnato durante la serata, lo ha visto inaspettatamente primeggiare sul compianto Chadwick Boseman, dato da tutti come favorito. Ma l’interpretazione dell’attore britannico già premiato ormai quasi trent’anni fa per Il silenzio degli innocenti è davvero magistrale, uno strabiliante ultimo atto di un’altrettanto incredibile carriera.
Ormai 83enne, qui lo vediamo vestire i panni di un distinto signore coccolato dalle attenzioni non richieste di sua figlia, una grande Olivia Colman che nelle prime immagini vediamo recarsi in visita dall’anziano genitore, nel suo appartamento nella Londra bene. L’uomo, nonostante lo neghi, con l’avanzare dell’età comincia ad accusare disturbi legati alla demenza senile, come perdita di memoria e lucidità, confusione generalizzata. Anne, molto devota a suo padre, tenta di aiutarlo in tutti i modi affiancandogli badanti, infermiere e collaboratrici domestiche varie, con scarso successo causa il carattere e il progressivo degenerarsi delle capacità cognitive di lui. Tutto a un tratto, infatti, le cose cominciano a farsi confuse, quanto inquietanti.
Dopo l’annuncio di un imminente trasferimento con un nuovo compagno a Parigi ritroviamo Anne insieme all’ormai ex marito (Mark Gatiss), interpretata improvvisamente da una Olivia diversa, la questa Williams volta. E sembra quasi che voglia far fuori il povero Anthony per appropriarsi del suo appartamento, dove si è già stabilita. Poi lo scenario cambia ancora, ancora e ancora. Si alternano attori vecchi e nuovi e l’unico setting, la grande casa londinese, comincia a cambiare lentamente e impercettibilmente fino a tramutarsi in un’angusta camera da letto all’interno di quella che oggi definiremmo una RSA. La nebbia della confusione dei ricordi e delle sovrapposizioni temporali del protagonista comincia, infatti, a diradarsi. Ma solo sul finale, quando capiamo di essere stati immersi fino a poco prima nel mondo visto dagli occhi di un’anziano signore che c’è e non c’è, insidiato dalla sua stessa mente confusa e tanto appannata da non riuscire più a decifrare la realtà.
Zeller racconta in modo sublime e straziante lo stato delle persone affette dal morbo di Alzheimer, intrappolante in un limbo senza fine dove ogni certezza è azzerata. E lo fa adottando una prospettiva struggente e insolita. Abbandona la narrazione lineare per abbracciare il punto di vista del malato, che il cinema ci ha abituato a osservare da una prospettiva esterna, quella dei suoi cari, quasi a voler rilevare la severità della patologia in proporzione al dolore e alla devastazione che infligge alle vite di quest’ultimi. Con l’aiuto di un interprete d’eccezione il giovane regista sovverte i canoni puntando la cinepresa proprio nell’occhio del ciclone. La bravura di Hopkins rende autentiche le stranezze del suo personaggio, in grado di apparire lucido fino a un istante e l’attimo dopo smarrito, totalmente perso tra luoghi e persone che non riconosce. I suoi continui cambi di registro emotivo sono semplicemente perfetti e rendono il personaggio prima indifeso e ferito nell’orgoglio dalla senilità, poi sprezzante e temibile, forte di quei linguaggi del thriller che lo hanno reso celebre.