Quarantottesimo film, una carriera iconica e decennale alle spalle ora insidiata da accuse e ostracismi, con il suo Rifkin’s Festival Woody Allen mette in scena un’ennesima variazione del tema: il suo mondo, quello dell’intellettuale in crisi alle prese con il senso della vita e le beghe d’amore. La natura della sua commedia romantica, ormai cult, non cambia mai – e va bene così – muta piuttosto la prospettiva e il punto di vista, con gli anni sempre più disilluso. Negli ultimi Café Society e Un giorno di pioggia a New York a fare da transfer c’erano protagonisti ben più giovani, ma sempre fedeli incarnazioni dello spirito alleniano. Questa volta invece il regista sceglie Wallace Shawn, un suo contemporaneo si potrebbe dire. Come se il parallelo non fosse già abbastanza evidente, il film si apre e si chiude proprio nello studio di un analista con l’alter ego intento a confessarsi. E qui Allen si lascerà andare a una considerazione interessante…
Shawn è Mort Rifkin, un ex docente di cinema, newyorkese, appassionato cinefilo, in viaggio per San Sebastián con la giovane moglie. Lei, agente, seguirà il festival cinematografico insieme al regista Philipe, un enfant prodige che il prof disprezza. Inutile dire che il loro matrimonio già balla da un po’, cocktail ed eventi non fanno altro che accelerarne il disfacimento. Da quando sono arrivati, inoltre, Mort ha un dolore al petto e pensa e ripensa al suo romanzo, che non riesce a vedere la luce. Su consiglio di un amico si convince ad assecondare la propria ipocondria andando da un cardiologo locale, che si rivelerà dottoressa, affascinante nonché sentimentalmente infelice. Mentre la moglie trascorre le giornate in compagnia del brillante cineasta francese, con già in mente addirittura un film sulla questione Israelo-palestinese che “porterà la pace”, il nostro protagonista cerca di sottrarre la sua nuova amica spagnola al compagno, pittore fedifrago e scapestrato.
Gli elementi del suo immaginario ci sono tutti, Allen si psicoanalizza, indaga le fragilità della vita di coppia, le sue paure e parla di cinema mettendo alla berlina tutti quei personaggi ‘da festival’. Riflette sulle derive culturali e l’involuzione subita dall’amata settima arte, mentre cala il suo Mort in sequenze parodiate e metacinematografiche, oniriche quanto gli originali classici. Attraverso scene celeberrime come quella delle terme di 8 1/2 fa ironia sul suo fallimentare romanzo e gioca a scacchi con la versione sorniona del triste mietitore, un mitico Christoph Waltz in stile settimo sigillo che gli raccomanda di fare sport, non fumare e mangiare verdura. Oltre alle tematiche tanto care a cui siamo abituati, infatti, Allen esprime tutto il suo rammarico per quel grande cinema che oggi sembra dimenticato, soprattutto in patria, offuscato dal business dell’intrattenimento. Ed è proprio negli USA che per il regista tira aria di tempesta. Mentre la critica vomita giudizi impietosi, l’establishment sembra ormai averlo ripudiato a fronte delle accuse di violenza mosse dalla figlia adottiva anni fa e recentemente tornate al centro del dibattito.
Chissà se alla fine Rifkin’s Festival riuscirà a trovare distribuzione anche oltre oceano oppure rimarrà nel suo esilio europeo, intercettando il pubblico della riapertura. Intanto, con una battuta finale che sembra più un invito al pubblico, Allen tira le somme. Un Mort ben più provato di come lo abbiamo incontrato, si rivolge al suo analista dicendo: ‘E lei che cosa ha da dirmi dopo tutto quello che le ho raccontato’. Che questo festival sia l’ultimo per il regista 81enne?