Chicago, 1967, il diciassettenne Bill O’Neil (Lakeith Stanfield) è un ladro d’auto che con un bel vestito, armato di un tesserino falso, si spaccia per agente derubando i suoi stessi ‘fratelli neri’. Dopo l’arresto, alla proposta di scambiare informazioni con l’FBI, accetta di infiltrarsi nelle Pantere Nere e inizia così la sua scalata ai vertici della sezione locale. Tenere insieme le due identità, traditore stipendiato e attivista (forse in fondo sincero), diventa per Bill sempre più complesso e travagliato quando entra a far parte della cerchia ristretta del carismatico vice presidente Fred Hampton (Daniel Kaluuya). Il leader delle Pantere dell’Illinois in quel periodo, tra un arresto e l’altro, è impegnato a mettere insieme un’ambiziosa alleanza interrazziale che dia nuovo impulso al suo progetto politico di sovversione dell’ordine americano.

Presentato quest’anno al Sundance, il dramma poliziesco Judas and the Black Messiah a giudicare dalle 6 candidature, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura, ha senz’altro ottime chance di primeggiare agli Oscar 2021. L’estetica, i ripetuti piani sequenza, la tematica di forte impegno civile, il linguaggio cauto che adotta il punto di vista del traditore onde evitare pericolose agiografie, il film di Shake King, cineasta di Brooklyn alla sua seconda regia, ha tutte le carte in regola e come unico rivale Il processo ai Chicago 7 di Sorkin, allineato sullo stesso filone narrativo ma in formato legal thriller. 

Mentre l’Hampton di Sorkin, anche lui coinvolto nelle vicende giudiziarie raccontate dal film Netflix, ha un ruolo nella storia tutto sommato marginale, King lo mette al centro, accanto al contraltare Bill O’Neil. Lakeith Stanfield e Daniel Kaluuya sono l’uno un Giuda incerto e dubbioso, interiormente sconvolto da un dualismo doloroso quanto avvincente, l’altro il messia, l’uomo che raccolse l’eredità del dottor King e di Malcolm X, grande fautore della lotta armata e dalla visione politica e ideologica di stampo fortemente marxista. Tra l’altro, i due agli Oscar corrono nella stessa categoria, candidati come migliori attori non protagonisti. Sebbene, forse, Kaluuya abbia una marcia in più, forte già del Golden Globe. 

C’è di fatto l’ambivalenza al cuore del film, opera che mette in luce alcune fratture all’interno della comunità afroamericana poco note. Una delle tensioni più interessanti indagate da King è quella che c’è tra l’Hampton sociale, impegnato a distribuire colazioni ai bambini, e quello violento e rivoluzionario che scrive discorsi infuocati, intrisi di quel progressismo violento che lo portò nel mirino dell’FBI.