Martha e Sean (Vanessa Kirby e Shia LaBeouf) sono una giovane coppia di Boston che vede il proprio progetto di vita assieme andare rovinosamente in frantumi. Attendono con impazienza il loro primo figlio, una bambina, che dovrà nascere con un parto in casa. L’ostetrica che segue la coppia, al momento del travaglio non si presenta. Ecco che un’agitata sostituita dell’ultimo minuto (Molly Parker) si ritrova a dover fronteggiare inaspettate complicazioni. A situazione già degenerata, vano è l’intervento dei paramedici.
Il trauma è profondo, sembra impossibile da superare, per i due inizia un periodo di forte sconvolgimento emotivo. Mentre nel quotidiano arrancano sotto il peso di una tragedia forse evitabile, devono confrontarsi con pressioni e aspettative familiari sempre più opprimenti.
In concorso alla settantasettesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó è il racconto, emotivamente intenso e personale, di un viaggio attraverso la genitorialità. Lo scenario è il più tetro, la straziante perdita della prole a pochi istanti dalla nascita. L’incubo di ogni genitore.
Il film analizza il dolore nella sua forma più piena e angosciante. Come l’originale opera teatrale, la narrazione è suddivisa in due atti: il drammatico parto in casa (scelta fortemente rivendicata dalla coppia, poi tramutatasi in grande rimpianto) e una rovinosa cena di famiglia che segna la rottura di equilibri e legami.
Martha elabora il lutto chiusa in se stessa. Ognuno ha un modo diverso di piangere, gestire la colpa e il dolore. Il suo è solitario, interiore. Tutti intorno a lei premono perché vada avanti, perché torni ad essere ciò che era pur sapendo che quanto accaduto non può essere cancellato.
Mentre Sean non sa difenderla, in particolare dalle ingerenze della fredda madre Elisabeth (Ellen Burstyn), Martha non è in grado di offrirgli il conforto che cerca, incapace di dividere con qualcuno il peso del fardello che porta. E’ il dolore che lacera lentamente la loro storia d’amore.
Pieces of a Woman non è tanto il racconto della morte di un bambino quanto delle sue conseguenze sulla vita di due persone. Martha sfida chi le sta intorno e trasforma l’amore in conflitto. Sean segue un percorso più regolare, attraversa i canonici stadi di rabbia, negazione e accettazione. La crescente incomunicabilità finirà per aprire tra i due un’incolmabile voragine.
La sceneggiatrice e compagna del regista, Kata Wéber, a partire dalla sua esperienza personale ricostruisce la dimensione emotiva del film, singolare e al tempo stesso universale. Anche la madre di Martha, come la sua, è una sopravvissuta all’Olocausto.
La sequenza d’apertura è senz’altro la più straziante del film. Il parto è visto attraverso un lungo piano sequenza di quasi trenta minuti che abbatte ogni distanza tra la neomadre, la cui psiche viene devastata dall’incidente, e il pubblico, per un approccio che amplifichi l’empatia. Prima la gioia per l’arrivo del bimbo, poi la preoccupazione per l’assenza dell’ostetrica, infine il terrore e la perdita.
Nella seconda metà del film, il regista sceglie di ripercorre alcuni momenti significativi della nuova sconvolta esistenza del personaggio della Kirby: gli sguardi dei colleghi rientrata in ufficio, la decisione di donare il corpo della bambina alla scienza con l’obiezione della madre, il progressivo allontanamento con il compagno – la tensione tra i due è sempre palpabile man mano che ci si avvicina al crollo – il processo.
Quando l’ostetrica viene accusata di omicidio colposo, Elisabeth insiste perché sua figlia testimoni, affronti la causa per chiudere con il passato. Ne segue un duro confronto, anch’esso documentato da un piano sequenza di una decina di minuti. Mentre sua madre spera nella giustizia Martha non cerca vendette, nessun risarcimento può darle la pace e la guarigione che cerca.