Arte e denaro: un tema provocatorio che apre un dibattito che va avanti da secoli. Un grande collezionista Giuseppe Garrera, la storica dell’arte Barbara Martusciello e il grande artista nonché presidente del Palaexpo a Roma, venerdì 4 dicembre ne hanno parlato nell’episodio di Unicum, storie da collezione in onda su Cusano Italia TV (264 dtt).
Collezionare è sempre uno scandalo sociale
«Nell’ambito del collezionismo, soprattutto del collezionismo d’arte, parliamo di patologie, follie, fantasticherie da parte dei collezionisti. Il mercato sa che nell’ambito del collezionismo d’arte ci sono delle tentazioni che inevitabilmente provocano questo fenomeno. Non dimentichiamo che il denaro ancora l’arte alla vita, all’umanità, al peccato: questo è uno degli elementi nevralgici del rapporto tra arte e denaro. Nell’ambito del collezionismo d’arte, il denaro esce fuori da quelle che sono le regole etiche del denaro, le regole tradizionali, il confort, l’utilità, il risparmio. Nel possesso ossessivo di un’opera, il collezionismo è all’interno di un sogno e forse il desiderio del collezionista è distruggere denaro in cambio di elementi evanescenti»: sono queste le parole del prof.Giuseppe Garrera, che convive da anni con la sua ossessione per il collezionismo d’arte e riconosce, come ha scritto nel suo libro Mitologia del collezionismo, che «collezionare è sempre uno scandalo sociale».
Idolatria e amore per la materia
Una vicenda curiosa è quella che coinvolse il grande artista Tiziano nel Ritratto di Jacopo Strada e dalla lettura dell’opera del prof. Garrera, conosciamo un lato che molti forse ignorano. L’artista, pur non avendo una buona opinione di Jacopo Strada, ritrasse l’antiquario per conferirgli prestigio e bellezza intellettuale. Le mani, il modo in cui tengono quella statuina, le monete sul tavolo, raccontano che entrambi sono accumunati «dall’amore misterioso e segreto per la materia». Un dettaglio, ci porta ancora di più al cuore del rapporto tra avidità, denaro e arte: quella pelliccia di zibellino che cade dalle spalle di Jacopo Strada, rappresentata come «una sorta di apparizione luminosa e tattile» faceva parte del contratto di vendita di quell’opera. Pare che Tiziano abbia litigato con Jacopo Strada non solo per la pretesa di una somma di denaro altissima ma anche per quella pelliccia. La cupidità per le cose, un segno di idolatria e amore per la materia da parte del grande Tiziano il quale mette in risalto un altro dettaglio nel ritratto: una clessidra che sembra dire che «la smania di collezionare, di possesso è probabilmente dovuta alla volontà di cancellare il tempo, la morte».
Le provocazioni della storia dell’arte
Il 12 agosto 1961, Piero Manzoni presenta per la prima volta in pubblico le scatolette di Merda d’artista. Il prezzo fissato dall’artista per le 90 scatolette (rigorosamente numerate) corrispondeva al valore corrente dell’oro. Spiega il prof. Garrera che «in Piero Manzoni, c’è il rapporto fondamentale tra arte e denaro: la scatoletta è una tomba dell’artista e richiede un atto di fede ovvero dobbiamo credere in cosa c’è dentro. Il denaro è la merda del diavolo e se l’artista trasforma tutto in oro con la sua firma, allora trasforma anche la merda. E non solo: lì siamo alle origini dell’atto creativo e nello scandalo della santità di questa reliquia di Manzoni». Negli anni sessanta, in una società sotto il segno imperante del dollaro «Andy Warhol ha la capacità di vedere il capitale senza elementi moralistici. Il capitale ricorda lo Spirito Santo perchè quanto più è intangibile, tanto più sa rendere sereni». Il dollaro diviene uno dei soggetti preferiti dell’artista, esprimendo al massimo il concetto di consumismo in linea con la cultura dell’epoca legata alle possibilità economiche, fino a dargli un potere religioso. Ultima opera di questa lista ma non certo ultima provocazione è l’opera di Yves Klein Zone di sensibilità pittorica immateriale. Il sogno di Yves Klein è che non rimanga nulla se non il sogno dello scambio. Questa opera di Klein è il momento più alto, sintesi del suo pensiero, di cui la parte più interessante sta nel rituale della transazione: veniva emessa una ricevuta di garanzia d’acquisto, molto simile ad un assegno, indicante data, luogo, nome acquirente, grammatura dell’oro corrisposto e firme con una clausola. L’acquirente entrava in possesso dell’opera, svuotandola del suo valore autentico, corrisposto in oro.
Per «riequilibrare l’ordine naturale», la ricevuta doveva essere bruciata, e parte dell’oro veniva gettato da Klein nella Senna, in presenza di due testimoni e un direttore di museo o di un critico d’arte, così da riequilibrare l’ordine cosmico. A questo punto l’acquirente era indissolubilmente legato all’immaterialità della zona, che apparteneva a lui soltanto e non poteva essere ceduta a terzi. Lo scrittore Dino Buzzati, confesserà che la cedola lui non l’ha bruciata ma ad un certo punto l’ha spenta perché «aldilà di tutto il collezionista è un feticista e io non sono stato in grado di conservare l’immateriale: ho conservato in una busta la cedola che attestava che fossi un possessore di invisibilità». Ancora una volta la storia indica che al centro del collezionismo c’è il «mercato delle reliquie, l’idolatria, un lacerto della creatività», osserva Garrera.
L’arte contro la sua mercificazione
Marina Abramovic parlava della performance come la fine della «cultura materiale e della mercificazione dell’arte». Barbara Martusciello, storica e critica d’arte, spiega che in effetti «la performance è nata per questo motivo ma la sua documentazione ha sempre supportato la sovvenzione degli artisti. Non c’è nulla di male in questo: non si rischia di fraintendere il senso della pratica performativa, se si tiene conto che senza ombra di dubbio è l’esperienza che fa la differenza». Si pensi, ad esempio, alla performance durissima alla Biennale del 97 premiata con Leone d’Oro, Balcan Baroque in cui Marina Abramovic, seduta su un mucchio d’ossa di bovino, ripuliva dalla carne e dalla cartilagine residua, in un rituale di purificazione di se stessa e per le stragi che avvenivano nei Balcani: chi era lì, sa che nulla può sostituire quello che si è vissuto dal vivo. «La documentazione della performance non è altro che un simulacro, di cui ci accontentiamo».
Il gioco con gli elementi fondamentali del sistema dell’arte di Cesare Pietroiusti
Cesare Pietroiusti crede che «l’arte sia il territorio di libertà e di ricerca a disposizione di tutti: gli artisti se ne fanno carico e ne fanno mostra. Il dialogo che l’arte crea e produce è fatto di idee ed esperienze e l’aspetto economico, pur se necessario, diviene un corollario secondario: l’arte infatti può sopravvivere senza il mercato ma il mercato non può sopravvivere senza l’arte». Protagonista delle performance di Cesare Pietroiusti è spesso il denaro perché spiega l’artista «nella società contemporanea, esiste un ambito di conoscenza che più ci condiziona e questo territorio, in questo periodo è sicuramente l’economia, le regole di scambio. Le regole del gioco dello scambio sembrano quelle più stringenti: il compito dell’artista è riconoscerle, consapevole che le regole sono invenzioni nostre e che possiamo modificarle cioè farle diventare un altro gioco». Come esempio Cesare Pietroiusti ha scelto di prendere una banconota, mangiarla, impegnandosi a restituirla con un certificato di autenticità come un’opera d’arte. Questa opera potrà avere un valore nominale superiore a quella che aveva prima di ingerirla ma l’aspetto interessante di questa esperienza è il fatto che si possa entrare in contatto con un oggetto – la banconota, appunto- e il suo rapporto con l’apparato digerente e l’intestino «territorio di margine tra dentro e fuori» e la trasformazione dall’esterno all’interno del territorio. Questo per dire che «l’operazione artistica è il modo di usare in modalità differente proprio quelle che che definiscono in modo uniforme la nostra vita».
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