Commedia della franco tunisina Manele Labidi, Un divano a Tunisi ci parla di una ragazza forte e indipendente che lascia Parigi e fa ritorno in Tunisia con l’idea di aprire il suo studio da psicanalista. Dopo la rivoluzione e la caduta di Ben Ali, in un periodo in cui il paese assapora per la prima volta la libertà, Selma si scontra subito con la cultura dominante, musulmana e tradizionalista, che aborra l’idea di rivolgersi ad un estraneo per alleviare le sofferenze della vita. Da questo scontro nasce un’occasione di crescita, un ritorno alle origini catartico che scalfisce la maschera di una donna determinata, orgogliosamente single, all’alba dei quaranta. 

La regista, attraverso la lente di una doppia cultura, scorge in contesti e situazioni spesso tragiche una forte ironia e fa della comicità paradossale la sua cifra stilistica. Il contesto socio politico raccontato è molto serio ma l’ilarità e la dolce sconsideratezza dei personaggi, espansivi e vitali, è irresistibile. 

Fare i conti con il passato, confrontarsi con la famiglia, in cuor suo è questo l’obiettivo di Selma quando decide di fare ritorno a Tunisi. Li è un’estranea, la sua professione la gente sembra proprio non capirla. Ci si confessa nei saloni di bellezza, nell’hammam e pagare uno sconosciuto per parlare è inconcepibile. 

Nella diffidenza generale, Selma deve fare i conti con una amministrazione negligente e una polizia eccessivamente zelante e bigotta. Ma dopo la primavera araba il paese sta iniziando a mostrare segni d’apertura, e ben presto il suo salotto si popola di ritratti, personaggi che hanno una sofferenza visibile o nascosta, spesso ispirati alla famiglia della regista. I curiosi avventori sono possibili pazienti oppure tunisini davvero nevrotici e in crisi mistica. C’è un uomo che ha perso la fede e insieme sua moglie, un altro che è sul punto di cambiare identità e, ancora, una briosa parrucchiera che ha problemi con la figura materna. Tutti per lo più appartenenti alla classe media, la più lacerata dal conflitto tra modernità e tradizione. Mentre i meno abbienti sono schiacciati dalle necessità economiche e i più ricchi sono per lo più occidentalizzati, chi è nel mezzo regge sulle spalle il peso dell’economia nazionale ed è spesso vittima delle sue stesse ipocrisie sui tabù della sessualità e della religione. 

La pratica della psicoanalisi resta tuttora molto marginale in Tunisia, nonostante i primi tentativi di introdurla risalgano agli anni cinquanta. I propositi di questa donna, che ignora i codici della femminilità mussulmana e scansa l’idea del matrimonio, sono buoni e il periodo che succede a una rivoluzione ricorda vagamente la fase iniziale di un percorso d’analisi: ci si sente disorientati, si ha bisogno di mettere in discussione ogni cosa per poi ricostruire, ricomporre la realtà una tassello alla volta. E la natura divertente, comica spesso un po’ pazza della società tunisina come la racconta la regista, non può che far gioco a quella grande psicoanalisi di massa che è il cinema.