La pellicola racconta il lungo processo giudiziario che coinvolse i cosiddetti Chicago Seven, sette attivisti più uno – Bobby Seale, leader dei Black panthers ingiustamente mandato a processo insieme agli altri –  accusati di cospirazione e incitamento nello scontro tra guardia nazionale e manifestanti a Chicago, durante la convention democratica del ‘68.

In migliaia scelsero la via della disobbedienza civile per esprimere il loro dissenso alla guerra in Vietnam. Scesi in campo contro l’amministrazione Johnson, hippy, studenti, black panthers, violano il coprifuoco e si ritrovano coinvolti in un sanguinoso scontro con le forze dell’ordine, armate di gas lacrimogeni e manganelli. I rispettivi leader dei movimenti che presero parte a quello che viene ricordato come un vero massacro, vennero trascinati a processo e infine condannati. 

Aaron Sorkin ci racconta quel processo – fazioso e poco trasparente a causa di un giudice schierato, una giuria inadeguata e l’ombra dei federali che il film ci lascia intuire attraverso i suoi protagonisti: un cast stellare numericamente sorprendente. Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton, John Carroll Lynch, Eddie Redmayne, Mark Rylance, sono solo alcuni dei grandi nomi che si alternano in un film dalla produzione travagliata.

Nel 2006 è Steven Spielberg a commissionare a Sorkin una sceneggiatura sui fatti di Chicago, con l’intenzione di firmare la regia del progetto. L’idea era quella di arrivare nelle sale poco prima delle presidenziali del 2008, ma tra problemi di budget e scioperi del settore, il tutto si blocca e Spielberg lascia. Sorkin, che continua a scrivere, dopo quasi un decennio ottiene quel posto vacante alla regia. Le riprese hanno inizio con un cast ormai saturo di star, quasi 11 milioni di dollari su un budget di 35 è solo per loro. 

Il film, acquistato da Netflix in piena pandemia, transita solo per pochi giorni in qualche centinaio di sale per poi approdare in via definitiva sulla piattaforma streaming dal 16 ottobre.

A guardare questa storia oggi, i cinquant’anni che ci separano dai fatti narrati sembrano giorni. Gli scontri tra manifestanti e polizia che oggi infiammano le strade della grande America e quell’adunata di migliaia di contestatori dell’amministrazione Johnson repressa nel sangue, sembrerebbero avere una matrice comune. Ma siamo sicuri che Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin riesca a coglierla? La struttura narrativa, fatta di dialoghi che incalzano e battute brillanti, è quella a cui lo sceneggiatore di The Social Network ci ha abituato. Ma non è affatto cosa da poco, in uno sviluppo così organico, con tanti – forse anche troppi – punti di vista da raccontare, trovare la giusta sintesi che dia coesione al film. Sorkin lo riempie di personaggi ma dimentica il suo protagonista. Questa volta non c’è un Jesse Eisenberg a prendersi la scena e tutti quei grandi nomi – tirati dentro a un film che guarda alla Hollywood progressista e si rende appetibile per i prossimi Academy Awards – danno il loro meglio nell’assolo, ma restano voci isolate di un coro che fatica a formarsi. Ottima fotografia, grandi attori, grandi performance e una sceneggiatura che fila, ma il risultato è un film scevro di una direzione netta e definita, che difetta in carattere e personalità. Peccato.