Dopo undici anni un film italiano torna ad aprire la Mostra di Venezia. È Lacci di Daniele Luchetti che ritrova al suo fianco Domenico Starnone nei panni di sceneggiatore dopo ben ventidue anni.
Il film che apre le danze al Lido è una congiuntura di nuove prime volte che assume valore emblematico rispetto all’edizione attuale della manifestazione, tanto importante quanto miracolosa nella sua attuazione.
Riportare il cinema a Venezia non è cosa facile in questo 2020 incerto e traballante, in cui la cultura come tanti altri settori è vittima dell’emergenza sanitaria. E questo dramma coniugale, a firma del regista di La scuola, non risolleva di certo gli animi. Il ritratto che ne esce è amaro, ma a tratti anche scanzonato grazie al grande Silvio Orlando che rinnova con Luchetti la sua collaborazione. Da insegnante con una tenera vena paterna nei confronti degli allievi a marito scontento, insidiato e fedifrago. Questa volta con lui ci sono Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini e sotto esame non è la scuola ma la famiglia, il matrimonio e la vita di coppia.
Napoli, primi anni ‘80. Aldo e Vanda (Lo Cascio e Rohrwacher) si sono giurati amore eterno. Smaniosi di conquistare una propria indipendenza e costruire qualcosa di loro, con l’impiego stabile in Rai di lui e l’impegno in casa a tempo pieno di lei, tutto sembra andare per il meglio e l’arrivo di due bambini può solo che completare il grazioso e felice quadretto familiare. Quel perfetto equilibrio, idilliaco quanto illusorio, si spezza con la confessione di Aldo: è stato con un’altra donna, forse è innamorato, forse no, forse ancora non lo sa. Ma sa di volere indietro la propria indipendenza, e corre a Roma dalla nuova fiamma.
Seguono anni bui per i due. Vanda invece di lasciarlo andare vorrebbe riportarlo a casa, dai bambini, da lei. Tra crisi di nervi e isterie, il candore glaciale della Rohrwacher riporta indietro un impenetrabile Lo Cascio ma l’armonia della coppia, che all’apparenza si ricompone, è incrinata irreversibilmente.
Una promessa non mantenuta, un amore disamorato, poi ripreso, poi sofferto, non voluto (involuto). Ritroviamo la coppia all’alba dei sessanta, a punzecchiarsi in una casa mausoleo, tempio di quel loro amore fallito. Questa volta in azione ci sono Laura Morante e Silvio Orlando, la retorica li assale nel bel mezzo di un buon caffè, tra cocci e macerie dell’appartamento vandalizzato da ignoti. Di ritorno dalle vacanze è questo che trovano, il caos. Le chiavi e il gatto Labes lasciati – forse incautamente – ai figli ormai grandi: una Giovanna Mezzogiorno primogenita devastata e un Adriano Giannini ai minimi termini, azzerato da ex fidanzate, mogli, amanti con esigenze sempre nuove, pronte a impartire ordini.
Daniele Luchetti ci racconta i danni causati dell’amore e per farlo non può che catapultare l’attore al centro. Indagare quasi ossessivamente ogni espressione, tutto deve avvenire a favor di camera. Di certo non un problema con un casting tanto azzeccato. Una corolla di performance sapientemente raccordate si schiude attorno al talento e alla sensibilità di un autore nostrano, che se da un lato rende questa apertura meno internazionale d’altro con i suoi “lacci” porta tutti i nodi al pettine. Perché quest’anno è la forza della qualità – ci ricorda il direttore Antonio Barbera – il vero motore del festival, italiana o internazionale che sia.