In arrivo il 2 settembre nelle sale italiane, Ema di Pablo Larraín ha già fatto tanto parlare di sé al Lido di Venezia in occasione della 76 edizione della Mostra del Cinema perché rivoluziona l’idea di famiglia e di maternità e colpisce con la sua sessualità esplicita.

L’idillio amoroso tra Ema la ballerina (Mariana di Girolamo) e Gaston (Gael Garcìa Bernal) il coreografo di qualche anno più grande, si incrina per un’adozione fallimentare, fatto frequente in Cile.

Un vero shock per i due. Lei cerca di esplorare ogni nuova forma artistica ed espressiva per riuscire a  perdonarsi mentre Gaston, più consapevole e di un’altra generazione, non riesce a capire il nuovo percorso di Ema. Lui, al contrario, vuole ballare al chiuso, vive la danza come una questione privata, fatta per se stesso e non per gli altri. Ema pensa al divorzio e si rivolge, non a caso, all’avvocato che ha accolto il piccolo Polo dopo il fallimento dell’adozione. Il legale è una donna in carriera che si lascia sedurre dalla ballerina proprio come fa, parallelamente, anche suo marito, il pompiere che accorre a spegnere le fiamme dell’ennesimo incendio appiccato da Ema. 

Lei non ha inibizioni, ama ballare in strada, sperimentare l’amore,  esplorare la vita. A ben vedere si tratta di un dramma musicale sulla famiglia moderna che come quella tradizionale sembra trovare la propria ragione nella genitorialità. 

A ritmo di reggaeton il regista cileno dipinge per la prima volta  in un film sul presente, con gente che vive il presente. Si fa interprete delle inquietudini dell’ultima generazione che difronte alla fine delle certezze sente il bisogno di trovare una nuova espressività per dar voce a sentimenti e speranze inediti.

Nuova pertanto è anche la narrativa che deve trasporre tutto ciò su pellicola. Quella individuata da Larraín cresce lentamente: il film in apertura da l’idea di avvilupparsi su se stesso tanto è affastellato e confuso, ma appena il regista libera la narrazione dal peso dei lunghi dialoghi-monologhi, rendendola più fluida, meno sconnessa, prende quota e si libra. E’ proprio a quel punto, come accade a Venezia, che le interminabili e ossessive scene di sesso accompagnate dal ritmo martellante del reggaeton, rischiano di svuotare la sala dal pubblico più sensibile.

Mariana di Girolamo e Gael Garcìa Bernal in Ema di Pablo Larraín

Solo nell’epilogo Larraín ci concede una chiara visione dei fatti, gli incontri apparentemente casuali, la sensualità e sessualità irresistibile di Ema che convoglia su di sé tutti coloro che le sono attorno, il bisogno viscerale ma mai troppo manifesto di maternità cominciano ad avere un senso nel quadro generale. La trama intessuta per tutto il film finalmente si rivela.

Non c’è l’obiettivo di rivendicare un qualcosa, quanto la volontà di testimoniare la complessità dei rapporti e delle relazioni di oggi. Ema parla ai giovani perché appartiene a un mondo nuovo con una nuova estetica, un nuovo modo di comunicare, difficile ormai da ignorare anche cinematograficamente. Larraín individua il personaggio di Ema per raccontare questa inedita realtà, una donna sensuale, sicura di sé, esplosiva, una femme fatale dei tempi moderni. E la lascia confrontarsi con tematiche universali – famiglia, maternità, libertà – esplorate attraverso una danza fatta di ritmi atavici e primitivi che scandiscono l’intera pellicola.

Il corpo comunica la propria storia e diventa come una grande orchestra di cui Ema è la direttrice, capace di prendere decisioni e di costruirsi un suo orizzonte di affetti, alternativo a quel mondo che sa solo giudicarla, sempre e incessantemente.