Da 5 Bloods – Come fratelli è l’ultimo film di Spike Lee, disponibile su Netflix. 

I 4 veterani Paul, Otis, Eddie e Melvin fanno ritorno in Vietnam per recuperare la salma del loro caposquadra Stormin’ Norman (Chadwick Boseman) – “ il nostro Malcolm X e il nostro Martin” – rimasto ucciso e disperso durante il conflitto. Tanti anni prima hanno stretto un patto di reciproca fratellanza, un accordo inscindibile, ancora oggi suggellato dalla devozione viscerale condivisa dai quattro nei confronti di quell’uomo, eroica guida spirituale negli orrori della giungla, instancabile promotore di nobili ideali anche nei momenti più bui. 

Ma il secondo obbiettivo del viaggio, una montagna di denaro, rischia di spezzare questo legame decennale.  L’oro dello Zio Sam, scovato in missione e nascosto dai  commilitoni con la volontà di recuperarlo a guerra conclusa, diventa il giusto risarcimento per l’ingiustizia razziale e la brutalizzazione secolare subita dai neri. 

I quattro dovranno fare i conti con il retaggio di Norman, le sue volontà, incompatibili con le rivendicazioni personali sulla divisione del bottino. Devolvere il denaro alla causa o seguire il proprio interesse realizzando il sogno americano negato? Con posizioni ben diverse quei veterani a confronto incarnano le varie anime dell’America dei neri, Paul – interpretato magistralmente da Delroy Lindo, la prova attoriale che più risalta nel film di Lee – alle prese con il disturbo post traumatico, ha addirittura aderito alla retorica trumpiana e sfoggia all’arrivo in Vietnam tra lo stupore degli altri, il cappellino da campagna elettorale con lo slogan “Make America Great Again”. 

L’ultima pellicola del regista premio Oscar di Atlanta si presenta come un vero e proprio manifesto, per un cinema sempre più impegnato e permeabile alla sua ideologia. Da 5 Bloods è il primo film con un budget tanto importante – tra i 35 e i 45 milioni di dollari – a raccontare la guerra del Vietnam dal punto di vista di soldati afroamericani. Lo script, infatti, inizialmente non prevedeva protagonisti neri. È stato lo stesso Lee, dopo aver preso in mano le redini del progetto sostituendo alla regia Oliver Stone, a riscrivere la “sua” storia insieme al co-sceneggiatore di BlacKkKlansman. E in parte l’intento è proprio questo, smontare i cliché hollywoodiani, i “fintissimi film di Rambo” e “tutti quei figli di puttana che al cinema vogliono vincere la Guerra del Vietnam” come dicono i 5 bloods finalmente riuniti.

L’incipit è uno stralcio documentaristico fondamentale per comprendere il contesto prima ancora di conoscere i personaggi, e le parole che accompagnano il rifiuto di Mohamed Alì non possono che rendere al meglio tale volontà da parte del regista: “La mia coscienza m’impedisce di sparare a delle gente povera e affamata che vive nel fango, per la grande e potente America. E poi sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, né mi hanno mai linciato. Non mi hanno sguinzagliato dietro i cani”.

Inizia così la guerra del Vietnam secondo Spike Lee, con un’enorme contraddizione che si ripete in ogni conflitto che vede gli USA protagonisti. “Prendi 20 milioni di neri e fai combattere loro tutte le tue guerre, fai raccogliere loro tutto il tuo cotone, senza mai dare loro niente in cambio”, anche in questo caso si serve delle parole di Malcolm X per dare una lettura a dati più che rappresentativi, il 32% dei soldati in Vietnam erano neri nonostante la popolazione americana di colore rappresentasse solo l’11% del totale.

Per ricostruire quella guerra tanto ingiusta che non ha mai abbandonato del tutto i suoi protagonisti, Lee alterna due piani temporali. Al presente si contrappone la missione sul campo dei 5 fratelli raccontata attraverso un formato di immagine ristretto, squadrato, con una pellicola diversa, inseguendo una rappresentazione oggettiva quasi documentaristica che si raccordi con le immagini d’archivio. Significativa è anche la scelta, diametralmente opposta a quella di Scorsese per The Irishman, di non ringiovanire gli attori o semplicemente affidare le parti in flashback ad interpreti più giovani, in questo modo rende ancora più esplicita la complessa dimensione psicologica dei personaggi, le loro coscienze costantemente attanagliate dai ricordi del passato.

Da 5 Bloods con i suoi 156 minuti propone una visione affatto indulgente dell’America di ieri e di oggi, trattando una materia cinematografica che ha dato vita ai capisaldi del genere non scende a patti con i suoi dettami e stravolge completamente molte delle dinamiche tipiche, finora messe in scena sugli schermi quando si parla del Vietnam. Lee fornisce un punto di vista personalissimo, canalizza polemica e risentimento riconfermandosi ancora una volta interprete puntuale del sentimento della sua comunità. Difficile prevedere che il film sarebbe uscito così a ridosso di una delle sollevazioni più significative della comunità afroamericana, e del tutto superfluo sarebbe risultato aggiungere riferimenti diretti al caso Floyd, piuttosto Lee preferisce rilanciare in chiusura il movimento Black Lives Matter rendendolo, sul finale, parte del suo film.