Nuova indagine di studio targata Unicusano: “Benessere e la Qualità di Vita Lavorativa ai tempi del COVID-19”. Il questionario online è stato elaborato dal prof. Pisanti della facoltà di Psicologia dell’Ateneo di Roma.
Unicusano: indaghiamo il Benessere Psicologico e la Qualità di Vita Lavorativa ai tempi del COVID-19
Con le misure di contenimento sanitario dettate dal Covid-19, molte aziende hanno dovuto riorganizzarsi e attivare lo smart working. Il lavoro agile ha cambiato completamente il ritmo della nostra quotidianità, generando una scissione profonda tra la grande opportunità di rallentare la nostra corsa giornaliera e il rischio legato a nuove abitudini meno salutari: sedentarietà, alterazione delle ore di sonno, isolamento forzato, tensioni fisiche e mentali, preoccupazioni per la salute e anche per il lavoro.
In ambito lavorativo, il benessere è sinonimo della piena espressione del potenziale di ciascun individuo; pertanto la soddisfazione lavorativa, il carico di lavoro, le relazioni con colleghi e superiori, la chiarezza dei ruoli, sono tutti indicatori del benessere psicologico del lavoratore. Per analizzare la salute di un’azienda e dei suoi dipendenti, generalmente, si analizzano il clima e l’ambiente lavorativo.
Con l’emergenza sanitaria dettata dal Covid-19 e l’adozione forzata dello smart working è mutata la qualità della nostra vita lavorativa. Il prof. Renato Pisanti, professore di Psicologia del Lavoro e di Psicologia delle Organizzazioni, ha avviato un’indagine sul “Benessere e la Qualità di Vita Lavorativa ai tempi del COVID-19”. Lo scopo dello studio consiste nell’indagare le associazioni esistenti tra diverse modalità di organizzazione lavorativa e le dimensioni di interesse psicologico quali, per esempio, le risorse sul posto di lavoro, i processi emozionali, le dimensioni individuali e la qualità delle relazioni.
Intervista al prof. Renato Pisanti, professore di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni presso Unicusano.
Buongiorno prof. Pisanti, come nasce l’idea di realizzare uno studio sulla qualità della vita lavorativa al tempo del COVID-19?
Fin dall’inizio della mia carriera di ricercatore e di psicoterapeuta, mi sono sempre occupato di tematiche inerenti l’incidenza dello stress “lavoro correlato” sul benessere del lavoratore. In particolare, i miei interessi si sono incentrati sull’interazione tra le dimensioni lavorative stressogene, le risorse psicosociali, che sono sempre presenti sul posto di lavoro (anche se molte volte facciamo fatica a riconoscerle), e le dimensioni più prettamente individuali. Gradualmente i miei interessi di ricerca si sono focalizzati sugli eventi che compensano e “annullano” lo stress. Sono sempre più interessato ai processi di “recupero”; alcune mie domande di ricerca sono: “in che modo gli individui ritornano a condizioni pre-stress” e “perché di fronte agli stessi stressor ambientali alcuni individui sono più bravi di altri nel recuperare prima?”; infine “quali risorse individuali e relazionali possono favorire il recupero?”. Bisogna, però, dire che il lavoro nelle organizzazioni è molto cambiato negli ultimi anni. A causa dei tagli di budget di varie crisi economiche su scala internazionale, la maggior parte di chi lavora, oggi, deve affrontare elevati livelli di carico di lavoro e una maggiore insicurezza del mantenimento del proprio posto; tutto ciò è molto spesso accompagnato da elevate richieste sul piano cognitivo ed emotivo da parte delle organizzazioni.
Da chi è composto il team di ricerca?
Collaborano con me le dottoresse Giulia Di Pietro, Susanna Lunadei e il dottor Federico Amante. Sono miei ex studenti interessati alle tematiche inerenti il benessere nelle organizzazioni.
Qual è un campione giusto da raggiungere per poter dire valido lo studio?
Alla fine dello studio spero di ottenere una casistica quanto più eterogenea e rappresentativa della situazione italiana.
Cosa indagate?
Dopo lo stato di emergenza legato al COVID 19, ci troviamo a vivere in una serie di situazioni che risultano “subite”. Abbiamo dovuto cambiare tutta una serie di abitudini. Molti di noi devono improvvisamente svolgere il proprio lavoro “da remoto”. Tutto ciò significa una ristrutturazione delle proprie abitudini di vita e delle modalità di interazione con gli “altri significativi”: i colleghi, i superiori, e soprattutto i propri familiari. Molti di noi avevano organizzato i propri “spazi” in casa, separando il contesto lavorativo da quello familiare. In pochi giorni ci troviamo a condividere con i nostri familiari “devices” e “scrivanie” perché abbiamo meeting con i superiori e i colleghi e, diverse volte contemporaneamente, i nostri figli devono frequentare videolezioni. Tutto ciò costituisce spesso un’ulteriore fonte di stress che si aggiunge agli stressor lavorativi ordinari.
Il benessere organizzativo risiede nella qualità della relazione esistente tra le persone e il contesto di lavoro. Lo smart working potrebbe avere risvolti positivi?
Sicuramente ci sono risvolti positivi, ma a determinate condizioni. Non è una modalità lavorativa valida in tutte le situazioni. Diversi studi, ad esempio, evidenziano che il lavoro da remoto (i.e., espletato lontano dall’azienda attraverso device e/o uffici virtuali), non è estendibile a tutti i dipendenti. Solo i lavoratori caratterizzati da ottimali livelli di autonomia lavorativa possono beneficiare in termini di produttività e qualità di vita lavorativa. Altre ricerche hanno evidenziato che persone caratterizzate da bassa autonomia e bassa stabilità emotiva (una dimensione di personalità) erano maggiormente performanti quando lavoravano nella sede centrale più che da remoto. L’autonomia lavorativa è qualcosa che si conquista “sul campo” attraverso esperienze e competenze. Per questa ragione, ritengo che le aziende che vogliono ricorrere a modalità flessibili dovrebbero anche investire in formazione.
Puoi partecipare all’indagine compilando il questionario anonimo online qui.
***Articolo a cura di Michela Crisci***