27 marzo, ore 18.00. Sul sagrato della basilica di San Pietro, Papa Francesco invoca con una preghiera la fine della pandemia.
Difronte ha una piazza fantasma, alle spalle il crocifisso di San Marcello, “miracoloso” contro la peste del ‘500. Con una benedizione Urbi et Orbi proclama l’indulgenza plenaria mentre, in sottofondo, qualche gabbiano grida lontano e una pioggia battente irriga il corpo del cristo in legno scuro. Non ci sono fedeli, solo lui, un uomo anziano, piccolo e incurvato che sale a fatica gli scalini e si rivolge in solitudine a un pubblico ignoto. Le campane e la sirena di un’ambulanza rompono quegli istanti sospesi, come ultimo atto di una pièce fin troppo teatrale.
E difronte a questo quadro, sui social arrivano i primi commenti: “Neanche il miglior Sorrentino”, “Altro che Sorrentino”, “Sorrentino chi”.
Lo si ama o lo si odia il regista napoletano, ma che sia un grande artista è chiaro a tutti e c’è una carriera ventennale a testimoniarlo. È un fuoriclasse, un visionario che ha trasformato il grottesco e l’onirico della fiaba felliniana in uno strumento di indagine straordinario per aprire uno spiraglio nella mente dei potenti, e di questo bisogna darne atto. “Il Divo” Andreotti, “Loro”, il Cavaliere e il suo entourage, fino ad arrivare al Pontefice e alla chiesa cattolica con le sue complessità e contraddizioni. Su questa ha calato un nuovo immaginario, fatto di suoni e forme che invocano un ideale sorrentiniano apparentemente inconciliabile con il reale. Ma il 27 marzo alle 18.00, per qualche minuto, qualcosa si è spezzato e la realtà ha superato l’immaginazione, scrivendo una pagina indelebile nella storia del mondo Cristiano e non.
La Chiesa è cambiata, certo. Nei secoli ha visto il suo potere temporale mutare e ridursi, costretta, per quanto possibile, a stare al passo con i tempi adeguandosi alle moderne politiche. Quel che è rimasto a oggi è un’istituzione millenaria, longeva nella sua lentezza, con il compito di preservare il mistero della fede attraverso un padre spirituale primus inter pares, nella fragilità e nella debolezza come nella caparbietà e nell’abnegazione di un leader saggio e profetico, ma pur sempre umano.
Scavando in questa umanità, il giovane papa di Jude Law ha raccontato l’arroganza, l’intransigenza, la chiusura. Ora con John Malkovich c’è un nuovo papa, fragile come la porcellana, carismatico e seducente quanto vulnerabile. “Il problema è l’amore”, ammonisce i cardinali, perché l’amore è la fragilità della natura umana e, in tutte le sue forme e storture, è al centro di questo secondo progetto sorrentiniano. “Tutti abbiamo diritto alla fragilità”, persino il papa ha il diritto di rinunciare e in questo non c’è un vero riferimento all’abbandono di Benedetto XVI. I papi di Sorrentino vivono di vita propria nel riflesso della Chiesa di oggi, universale ma mai troppo illuminata. Allegoria del suo grigiore è infatti il cardinal Voiello del grande Silvio Orlando, protagonista indiscusso. Inamovibile dal suo ruolo di Segretario di Stato, ineguagliabile nel tenere a bada la Curia. Nessuna tempesta in Vaticano è in grado di scalfirlo. Pragmatico, scaltro, ma anche lui inevitabilmente umano, un dualismo meglio esplorato in questo secondo capitolo della serie.
Per il resto questa nuova avventura ben poco si differenzia dal precedente “The Young Pope”, il linguaggio espressivo e stilistico porta la medesima firma e non subisce grosse evoluzioni. Il mondo ecclesiastico continua ad essere filtrato dall’immaginazione di un maestro contemporaneo che sa, dalla danza psichedelica delle suore di clausura al papa che sfila in costume da bagno, come provocare sconcerto e fascinazione dando vita a qualcosa di iconico.
Ma subito dopo le fantasie più sfrenate di Sorrentino, ci sono anche le nostre, e “I Due Papi” di Fernando Meirelles si preoccupa proprio di dar loro vita. Il registra brasiliano nel suo film per Netflix gioca sull’incredibile somiglianza, esplosa sul web, dei grandissimi attori Jonathan Pryce e Anthony Hopkins con i loro rispettivi personaggi e mette in scena un fantomatico confronto tra due personalità esistenti che tutt’ora condividono spiritualmente il peso del pontificato. Il cardinal Bergoglio, futuro pontefice, e Benedetto XVI, l’allora papa Ratzinger alla soglia del gran rifiuto. Chi di noi, leggendo i giornali, non ha mai immaginato le parole di un loro incontro.
Due Papi, e ancor prima due uomini, diversi, per due chiese diverse. Visioni del mondo cristiano anche qui speculari, una conservatrice e dogmatica l’altra sociale e conciliante, che si sfiorano delicatamente per poi intrecciarsi nella riflessione di un dialogo pacato, ma venato dallo humor tedesco e argentino che non si risparmia deliziosi siparietti calcistici e musicali. Antipodi che si riscoprono più vicini che mai nella debolezza di un momento di crisi profonda, un passaggio di testimone delicato per la cattedra di Pietro. Nel film, questa transizione inusuale dai contorni fantasiosi, si serve del confronto verbale come arma dialettica necessaria al fine di ristabilire gli equilibri e fare il bene della cristianità.
A dispetto delle interpretazioni e della sagacia dei dialoghi che conquistano 3 nomination agli Oscar, la disomogeneità nell’indagine sui personaggi, lunghi flashback sulla dittatura argentina ma nulla sul passato di Ratzinger, una regia piatta e fin troppo garbata, forse per un mal celato intento documentaristico, e qualche stralcio di Castel Gandolfo non reggono certo il confronto con la scenografia, ne tanto meno con il coraggio provocatorio della saga di Sorrentino.
Seppur con registri e stili diversi, il film di Fernando Meirelles e la serie di Paolo Sorrentino si muovono verso la stessa direzione, delineando un quadro complessivo dai molti punti in comune.
Una Chiesa perfettamente imperfetta in cui il dualismo tra spiritualità e umanità, due occhi della stessa testa, sembra irrisolvibile. Una Chiesa che si riscopre fragile nelle sue incertezze, indebolita per il troppo amore o per il troppo poco, avvelenata da una religiosità senza alcuna religione, e vulnerabile nella condizione che contraddistingue la sua umana “santità”.