Come spesso accade quando un autore per lo più sconosciuto sbanca agli Oscar, l’Academy Awards consacra ufficialmente il suo successo al grande pubblico. Mai come quest’anno un primato così eclatante ha scosso il Dolby Theatre regalando a un regista sudcoreano dall’indubbio talento, Bong Joon-ho con il suo “Parasite”, quattro delle più importanti statuette tra le quali quella per il miglior film internazionale e l’agognato Best Picture.
Le distribuzioni a questo punto non possono che fare mea culpa e correre ai ripari recuperando i vecchi film del regista rimasti fuori dai circuiti. Ed ecco che “Memorie di un assassino”, già capolavoro nel 2003, arriva nelle sale italiane dopo ben 17 anni.
Il film è girato completamente in Corea. Si tratta di una storia vera che si svolge tra il 1986 e 1991 in un villaggio fuori Seul. Nel raggio di appena due chilometri dieci donne vengono stuprate e brutalmente uccise. L’inizio è spietatamente realistico: in un condotto di scarico tra i campi di riso viene rinvenuto il corpo di una giovane donna legato mani e piedi. L’atroce delitto che subito desta l’attenzione dei media e della polizia locale, si ripete con lo stesso modus operandi due mesi più tardi, e poi ancora e ancora per i successivi sei anni. In questo marasma di tragedie con una caccia all’uomo disperata, l’attenzione di Bong Joon-ho è tutta rivolta ai detective che seguono il caso dei quali offre un ritratto molto umano, distante anni luce dai canoni hollywoodiani del genere thriller e poliziesco. Park, Song Kang-ho che ritroviamo in Parasite, è un poliziotto di campagna che conta ciecamente sul suo istinto in materia criminale, mentre Cho dallo stivale chiodato, fa della violenza il suo cavallo di battaglia. Ad affiancarli c’è Seo, arrivato dalla grande Seul, sempre attento allo studio del dossier e dai metodi decisamente più professionali, finché anche lui non verrà messo a dura prova dall’efferatezza irrazionale di quei delitti.
Le indagini dei tre poliziotti consistono di fatto nell’accanirsi con altrettanta brutalità contro chiunque conoscesse le vittime. Non c’è un metodo di profiling, né alcuna idea sul come preservare la scena del crimine per l’investigazione forense, solo ricerche e inquisitorie, intuizione e ostinazione. Gli agenti sembrerebbero del tutto impreparati ad affrontare la logica perversa di un assassino seriale, la loro unica arma per il contrattacco è un lungo e violento interrogatorio di cui fanno largamente uso e abuso.
Da dove cominciare? Sui corpi non ci sono indizi. Gli unici elementi nelle mani degli investigatori sono il vestito rosso delle vittime, la pioggia, la morte per strangolamento, indumenti personali come arma del delitto.
Il sudcoreano Bong Joon-ho ha incantato il mondo per la sua straordinaria capacità di infondere nella settima arte intense suggestioni. Un autore tragicomico che fa del cinema un’occasione di confronto donando al suo pubblico l’opportunità di riflettere attraverso messaggi tutt’altro che scontati. In “Memorie di un assassino”, film meno diretto e maturo ma non meno brutale dell’ultimo e trionfale “Parasite”, nulla è scontato: non dice allo spettatore quando ridere, piangere o aver paura. Il regista racconta delle storie, o meglio ci regala delle allegorie del nostro tempo che hanno il duro compito di porre l’accento sulle macro criticità sociali della realtà odierna. Il resto viene da se, in maniera naturale. Certo i suoi film pretendono un pubblico intelligente, attento, perspicace, con spirito critico.
In “Parasite” il sugo della storia è la mobilità sociale e le disparità incolmabili, in “Memorie di un assassino” è un grave retaggio culturale da sempre radicato nel cuore dell’uomo. Oggi si parla di femminicidio o, per inquadrarlo più in generale, di violenza sulle donne, ma il femminicidio non è forse da considerarsi un terribile epilogo? Prima c’è un’escalation che affonda le sue radici in atteggiamenti e leggerezze nei confronti dell’universo femminile, più o meno gravi, disseminati nella quotidianità di tutti noi.
Sorge spontanea una domanda: nella pellicola coreana di cosa si occupa l’unica agente femminile presente nel team investigativo? Ma certo! Della fotocopiatrice e della macchinetta del caffè.
Il visionario Bong Joon-ho ci lascia così. Di fronte al film e al suo finale il pubblico può trarre le più libere conclusioni.