Koby per noi: parla, con la sua spessa umanità, Valerio Bianchini
Il primo allenatore che portò lo scudetto a Sud di Bologna, e che vinse il titolo tricolore in 3 città diverse, ha parlato dopo la tragedia di L.A. a Radio Cusano Campus. Ancora una volta incoraggiando chi ascolta a profonde riflessioni
Valerio Bianchini è intervenuto su Radio Cusano Campus per esprimere la sua opinione sull’incredibile tragedia che si è abbattuta sul mondo della Pallacanestro con la morte di Koby Bryant.
Quali pensieri hai condensato sulla questione occorsa alla figliola, a Koby e a quelli che erano purtroppo nel loro elicottero?
“Adesso il pensiero principale è che viene a mancare al Basket internazionale ma in particolare all’Italia, la testimonianza di un grandissimo campione, che è andato oltre il range dei grandi campioni americani, perché è stato qualche cosa in più. Lui è stato qualche cosa in più, e probabilmente lo deve anche all’Italia”.
Bianchini va in profondità: “Per due ragioni fondamentali. La prima è che dai 6 anni ai 13 ha imparato a giocare coi nostri tecnici a giocare a Pallacanestro. Tutti i tecnici, quando a 14 anni è tornato negli Stati Uniti, si meravigliavano della qualità dei suoi fondamentali e della capacità di esecuzione. E lui non esitava a dire che la Pallacanestro l’avesse imparata in Italia. Un grande elogio, per la nostra Pallacanestro, che di questi tempi il nostro Basket non se la vive granché bene, ma che ha dato grandi giocatori”.
Lui non l’ha mai dimenticata, l’Italia?
“No, parlava perfettamente Italiano, veniva spessissimo coi suoi amici giocatori, parlava con Magic Johnson e i suoi amici non faceva altro che parlare dell’Italia, di Portofino, della zona costiera. Insomma era veramente appassionato, del nostro paese. Il secondo motivo della sua diversità, della sua capacità, è stato un grande lavoro di propaganda di questo Sport, consisteva nel fatto che avesse fatto il liceo in Italia, le scuole in Italia. Aveva imparato certe cose, dal punto di vista culturale, che per i ragazzi americani erano difficili, che hanno tutt’altro tipo di educazione”.
Bianchini ricorda con un evidente moto di orgoglio: “Oltre ad aver imparato il Basket, in Italia, ha anche imparato una preparazione culturale notevole, che nelle scuole USA non hanno. Tanto è vero che lui, buffamente, si vantava di aver letto l’Iliade, pensa un po’, un mito, l’aver studiato la Grecia antica. Forse alla fine è stato una vittima, della classicità perché come dicevano gli antichi Greci “quando i giovani belli e combattenti sembravano immortali, gli Dei se li portavano via per invidia, per la loro bellezza, la loro forza, la loro bravura, Un po’ è capitato questo, a Koby”, dice con voce palesemente emozionata, l’allenatore che portò il BancoRoma a vincere in Italia, in Europa e nel Mondo.
Dal punto di vista dell’esperienza maturata da Joe Bryant, il padre, ha giocato in 4 piazze che ben conosci, e in particolare a Rieti, che ha pagato un prezzo alto vedi la scomparsa di Willie Sojourner, ma possibile che nemmeno nel tempio degli Dei ci sia attenzione verso questa disciplina da te ottimamente rappresentata e che diffondi con grande attenzione? E’ una cosa che si sceglie, la Pallacanestro, un amore che si tiene tutta la vita.
“Un conto è la passione. Un’altra cosa è la diffusione mediatica. La passione ce l’hanno anche gli americani. Che hanno due cose. Primo: il Basket si gioca in tutte le scuole e il Campionato NCAA si diffonde in TV con un notevole giro di soldi. Secondo: l’NBA arriva in tutto il mondo per la straordinaria attività di marketing. E questo fa una enorme differenza, con l’Italia, che invece è solo Calcio, Calcio, Calcio e niente altro”.
Purtroppo sul piano culturale il Calcio è un po’ la rovina, di questo paese, anche se abbiamo vinto 4 Campionati del Mondo, cosa peraltro accaduta anche nella Pallanuoto.
Tu ci insegni dall’alto della tua conoscenza specifica, tecnica e tattica, che non si diventa Koby Bryant se non si sfruttano le qualità sì atletiche, fisiche, ma che vanno incoraggiate con sei, sette ore di allenamento, anche all’interno di palestre anonime, rispetto ai templi sia dell’NCAA che ricordavi, che della stessa NBA…
“Non sono io, a dire queste cose ma è stato Koby, che ha sempre predicato. E’ stato il suo grande messaggio ai giovani, il fatto che non basti il talento, per emergere. Ci vogliono la disciplina, il sacrificio, ci vuole lo stare all’allenamento con la massima intensità. Cosa faceva Koby Bryant? Giocava al cento per cento sia in partita che in allenamento, e questo porta i suoi frutti. A questo si aggiunga il suo talento naturale, e qualche cosa in più. Perché non basta il talento, in Koby come in Michael Jordan, e la loro capacità di inventare, la Pallacanestro, capendo la sua complessità. Inventando un modo diverso di tirare, passare, difendere. Quindi diciamo un esempio veramente spettacolare. Non ce l’avremo più se non nei filmati, ma sarebbe stato bello che avesse continuato a essere l’ambasciatore del Basket nel mondo”.
Da cosa ripartono il mondo della Pallacanestro italiana e quella americana proprio sull’impegno e anche a livello sociale, lui che ha dedicato la sua attività anche per i meno, dotati di sorte?
“Io ho un’opinione, della NBA. Nella NBA si è smesso di giocare a Pallacanestro, come si intende in Eurolega o nella NCAA. E si messa a fare un Basket di puro consumo, con tantissimo partite, con scarso impegno difensivo; con una stagione regolare che vinci o perdi è la stessa cosa quindi con poca intensità”.
Coach Bianchini prova a vedere una punta di ottimismo, pur nella disgrazia.
“Spero che questa morte tragica di Koby, che era il contrario, di tutto ciò, che era intensità, impegno, che era gioco individuale ma anche gioco di squadra coi compagni, faccia rinsavire questi giocatori che stanno trascinando il Basket in una deriva di poco conto, trascurabile. Salvo poi impegnarsi un po’ di più, nei Play-off. Perché questo tipo di andazzo ha influenzato anche il campionato italiano, per molti aspetti, come giocare con le difese approssimative. Speriamo che questo shock possa servire per tornare sui binari di un grande Sport che non è solo il tiro a segno da 3 punti, o uno contro uno che non finisce mai di mostrare palleggi, di tentativi che finiscono sempre col passaggio a un tiratore da 3 punti. Il Basket dal punto di vista tecnico è in una fase di crisi”.
C’era proprio bisogno di giocare quelle due partite la sera stessa della notizia di quella tragedia?
“The show must go on, dicono gli americani: figuriamoci se fermano una cosa che produce soldi, spettatori, consumi al bar, poi soprattutto diritti televisivi. Loro hanno questo concetto, il che non è del tutto sbagliato, perché in fondo…”.
Un episodio storico lo cita Bianchini, e ci porta indietro, a riflettere: “Ricorderò sempre Mike Sylvester: un venerdì o un sabato successe che morì il figlioletto in un incidente. Lui non trovò di meglio che asciugarsi le lacrime, e giocò una partita di intensità strepitosa, con la Scavolini sul campo”.
Ricordo bene quel frangente, e mi hai riportato indietro di qualche canestro, di qualche anno.
Il dolore si supera con tutta l’umanità e il tatto del mondo. Grazie, Coach Bianchini. Una volta di più.