Filippo Misuraca è un imprenditore edile di Giardinello, in provincia di Palermo, che, con coraggio, nel 2013 ha denunciato i mafiosi che gli chiedevano il pizzo. Grazie alle sue testimonianze ha dato vita a diverse inchieste che hanno portato all’arresto di boss pericolosi di Cosa Nostra. Oggi Misuraca vive una situazione difficile: ha paura perché è senza protezione personale, ha subito più di 32 intimidazioni e i suoi compaesani lo hanno isolato. A Radio Cusano Campus, nella trasmissione “Cosa succede in città”, condotta da Emanuela Valente, ha raccontato la sua storia e ha chiesto aiuto allo Stato: “Non ho tutele, non ho un lavoro”, ha spiegato l’imprenditore.
La rabbia di Filippo Misuraca
“Sono preoccupato e arrabbiato. Mi sento considerato un imprenditore di serie D. Eppure grazie alle mie testimonianze sono stati effettuati una settantina di arresti. Mafiosi dei paesi della provincia di Palermo, come Partinico e Corlenone, che si stavano unendo per dar vita a un nuovo mandamento. L’unico imprenditore che ha confermato le richieste di pizzo sono stato io”.
Senza scorta
“Ho una vigilanza radio controllata. Vuol dire che quando esco di casa chiamo la sala operativa e i carabinieri mi accompagnano fino al bivio dell’autostrada e poi mi dicono: ‘Signor Misuraca ora si arrangi da solo, se ci sono problemi ci chiami’. Certo, io deve avvisare che mi stanno ammazzando. Come si fa? Oppure capita che la pattuglia sia impegnata e che non sia disponibile e i carabinieri mi dicono: ‘Si arrangi da solo, quando arriva a casa ci faccia una telefonata’. Ma se succede qualcosa come fanno a intervenire? Pensate che nelle intercettazioni di un incontro tra i mafiosi ai quali non pagavo il pizzo si sente il mio nome e uno di loro che afferma: tagliategli le gambe così vediamo se paga”.
Le intimidazioni
“Ho subito più di 32 intimidazioni. A due cagnolini hanno tagliato la testa, a un cavallo le gambe. Una delle mie bambine, che oggi ha 13 anni, quando aveva 7 anni ha assistito all’incendio della mia macchina e mi ha aiutato a spegnere il fuoco. Mia famiglia ha subito un trauma e ha avuto bisogno di un sopporto piscologico, a mie spese naturalmente. Dopo l’ultima denuncia che ho fatto, hanno allentato i bulloni delle ruote della macchina di mia moglie. Per una fatalità non l’ha guidata quel giorno. Mia moglie si sarebbe ammazzata con i miei figli. Quando mi rifiutavo di pagare il pizzo, i mafiosi si sono avvicinati a mia moglie e ai miei figli e li hanno minacciati di morte. Da quando ho denunciato pensavo di avere le istituzioni al mio fianco, invece ho avuto solo porte chiuse.”.
Le difficoltà lavorative
“Prima delle denunce fatturavo 7 milioni all’anno, oggi appena 500-600 mila euro. Lavoro solo nel nord Italia, dormo nei container perché non posso permettermi un albergo per me e per i miei pochi operai, altrimenti non posso coprire le spese. Non riesco a lavorare in Sicilia perché prima partecipavo ad appalti pubblici, ora non mi invitano più alle gare d’appalto da quando ho denunciato la mafia. Lavoravo su invito, ora non mi invitano più. Mia moglie fa l‘insegnate in una scuola di Monreale e per fortuna porta uno stipendio sicuro a casa”.
I mafiosi a piede libero
“Molti dei mafiosi che ho fatto arrestare hanno scelto il rito abbreviato, hanno avuto lo sconto della pena e ora dopo 7 anni liberi. Me li ritrovo in paese, quando li vedo non so che mi succede, è come se avessi le formiche per tutto il corpo, mi tremano le gambe”.
Il pagamento del pizzo
“Ho cominciato a pagare il pizzo nel 2007. Ma la prima estorsione è avvenuta nel 2005, quando mi hanno costretto a costruire un capannone per il quale non mi hanno pagato. Quella struttura mi è costata 250mila euro. Ho pagato il pizzo fino al 2013, quel 7 aprile è stata la mia liberazione perché mi sono rifiutato di pagare”.
La richiesta della scorta
“Ho scritto al Prefetto, al ministero dell’Interno, a chiunque. Non avuto risposte. Ora mi sto facendo sentire tramite l’associazione che ho creato insieme ad altri testimoni di giustizia chiamata “Associazione sostenitori collaboratori e testimoni di giustizia”.