Il buco nero e quella non foto che ha fatto la storia. Curiosità e dettagli succulenti circa l’operazione che ha sconvolto l’astrofisica.
La foto del buco nero non è una foto vera e propria perché i radiotelescopi dell’Event Horizon Telescope non l’hanno osservato nello spettro della luce visibile, ma in quello delle invisibili onde radio, perché queste riescono a penetrare la materia presente intorno al buco nero e la polvere interstellare per raggiungere la Terra. L’immagine è quindi una rappresentazione visiva dei dati raccolti. Essa però, a differenza di tutte le raffigurazioni precedenti dei buchi neri, deriva direttamente dalle osservazioni e non è una simulazione.
L’anello incandescente intorno al buco nero appare distorto dalla sua gravità, che piega la luce al punto di mostrare anche parti del disco di accrescimento che si trovano dietro all’oggetto, e dovrebbero quindi essere nascoste.
La parte nera al centro, poi, è in realtà l’ombra del buco nero, ed è più grande del suo orizzonte degli eventi, visto che il suo bordo è in realtà una proiezione della parte posteriore dell’orizzonte stesso.
A causa dell’estrema potenza del suo campo magnetico, il buco nero di M87 emette due getti di materia dai suoi poli, che si estendono per migliaia di anni luce. Uno di essi è puntato approssimativamente in direzione della Terra: questo ci fa capire che osserviamo il buco nero da un punto di vista quasi perpendicolare. Uno degli obbiettivi dell’Event Horizon Telescope è anche quello di comprendere meglio la natura di questi getti.
L’immagine è stata generata utilizzando 10 radiotelescopi posizionati in giro per il mondo, che hanno compiuto una serie di osservazioni, sincronizzate attraverso precisissimi orologi atomici, nel corso di due anni. Grazie a una tecnica detta interferometria, gli osservatori, distanti migliaia di chilometri l’uno dall’altro, sono stati usati come se fossero un solo telescopio di dimensioni pari a quelle della Terra. I dati raccolti, circa 10.000 terabyte, sono stati analizzati da potenti supercomputer, utilizzando un algoritmo sviluppato da un team guidato dalla 29enne americana Katie Bouman, ricercatrice del Massachusetts Institute of Technology.