Dino Meneghin da Alano di Piave (Belluno), il più vincente giocatore italiano di sempre, nella Pallacanestro, il simbolo assoluto, del Basket, il cestista che, per coerenza e serietà, ha rifiutato di parte del campionato più invidiato del pianeta, l’N.B.A. (National Basketball Association), il solo premiato, DA ATLETA, nel relativo Tempio delle Celebrità, la NBA Hall of Fame (gli altri due sono Cesare Rubini, da tecnico e dirigente, e Sandro Gamba, da coach dell’Italia Campionessa d’Europa nel 1983), è intervenuto nella trasmissione “Sport Academy”, in onda tutti i giorni, dalle 18 alle 20, su Radio Cusano Campus. L’occasione è stata la recente ricorrenza della vittoria della Pallacanestro Olimpia Milano abbinata Tracer Philips, in Coppa dei Campioni, riportata a Milano dopo ben 21 anni dalla volta precedente, quando la squadra portava il celebre nome del Simmenthal.
Radio Cusano Campus a canestro con un RARO ESEMPIO di CORAGGIO: D-I-N-O!
Abbiamo festeggiato recentemente la Coppa Campioni del Banco Roma, del 29 Marzo 1984. Il 2 Aprile del 1987, sei stato tra gli alfieri del capolavoro assoluto, nella strada di un certo Dan Peterson. Sei d’accordo?
“Lui era la mente che costruiva la squadra, coadiuvato da Tony Cappellari (general manager, n.d.r.), e la famiglia Gabetti. Marbelli, un altro grande conoscitore di Basket, che ha costruito prima Cantù e poi Milano”.
Come si rimane con i piedi per terra, per uno come te che aveva giocato già altre finali?
“La soddisfazione di giocare con grandi campioni, compagni ed allenatori e voler ritrovare questa sensazione, ogni volta. Costa tanto, come sudore, infortuni ed altro; ma se vinci competizioni del genere, alla fine capisci che ha avuto uno scopo. Se giochi in grandi club non vuoi arrivare secondo, perché è già un piccolo insuccesso. Questa è la benzina che ti manda avanti”.
Hai giocato tante finali (13 nella sola CoppaCampioni!), oltre a quelle vinte (ben 7!), e il fatto di rimettersi in discussione, è una motivazione già di per sé…
“Soprattutto quando capisci che stai invecchiando! – dice SuperDino -: giochi con i giovani e diventa una “guerra”, tra scuole e mentalità. Il dover ed il voler stare al loro passo, ti fa raschiare energie, dal fondo del barile”.
Gli facciamo un grande omaggio riascoltando gli ultimi secondi della telecronaca di due meravigliosi letterati, del racconto sportivo, il triestino Gianni De Cleva, e Aldo Giordani, fieri commentatori della RAI, per tantissimi anni. Dino gradisce.
Posso dire, senza essere ruffiano, che tu uomo comune, quella sera hai fatto qualcosa di speciale?
“Ho rischiato di buttare tutto all’aria! (sorride, oggi…) Ho sbagliato l’ultimo canestro, che poteva dare la sicurezza, su passaggio di McAdoo. Mi sono stirato gli adduttori, sull’ultimo passo di stacco, della gamba sinistra, ed il dolore mi ha fatto sbagliare. Mi ero anche stirato precedentemente a Milano, in allenamento, ai gemelli. Ho giocato quella gara con una puntura al polpaccio. Mi avevano fasciato la caviglia, per non sollecitare i gemelli, ad ulteriore sforzo. Poi, dai dai e dai, la gamba ha ceduto. Ora rido, all’epoca mi sarei sparato una pallottola di Nutella in bocca. Bob (Mc Adoo) mi ha preso in giro, fino alla fine del campionato. Diceva “Mike Mike (a D’Antoni), guarda come Dino ha sbagliato l’ultimo canestro, sul mio passaggio”. Ogni volta una pugnalata al cuore!”.
Il grande Decleva, ti definì eroe. Magari gli eroi sono altri, ma tu hai giocato quella gara, in condizioni fisiche semi-disperate”.
“Anche perché di fronte non avevo una verginella, ma avevo Kevin Magee, che era un armadio”.
Come si dice a Roma, una branda!
“Un armadio a quattro ante. Un comò! Siamo arrivati a quella finale, dopo aver passato una qualificazione problematica, sin da subito. Abbiamo superato l’Aris di Salonicco perdendo di 31 in Grecia e poi vincendo a Milano, di 34 (83-49, altro grande capolavoro, tattico e agonistico, ma anche psicologico, di Coach Peterson, ndc). Lo spirito-Olimpia è racchiuso tutto in quei 40 minuti di gioco, dove tutto sembrava perduto. Mattoni costruiti, passo dopo passo, in quella stagione che resta indimenticabile!”.
Quel magnifico gruppo ottenne e vinse due CoppeCampioni di fila, con Peterson e Casalini; non sono state un caso. Grinta, voglia di dimostrare che foste i migliori, i più forti, i più efficaci, in un’Europa che stava per cambiare, sotto molti punti di vista”.
“Una volta che assaggi il gusto della vittoria, ti senti più forte. Hai rispetto degli avversari ma nessuna paura. Entri in campo con la sicurezza, che può essere determinante. Vedevamo negli occhi degli avversari questo timore tipo: “E’ arrivata l’Olimpia, speriamo di vincere”. Noi non l’avevamo, anche se eravamo tutti giocatori oltre i 30 anni: Mike, Bob, io. Senza sicurezza di vincere, ma la consapevolezza di poterlo fare, ed è già mezzo risultato”.
Anche i gregari hanno risposto bene. A Losanna, se non rammento male D’Antoni uscì per falli, e non mi sembra fosse uno qualsiasi.
“Nel Basket si parla sempre dei primi 5, ma sono altrettanti importanti gli altri, con i quali ti alleni al meglio. Questi sono quelli che sono seduti 38 minuti e negli ultimi 2 sono decisivi. Tornano nell’ombra, senza ripicche e gelosie. Stessa voglia di vincere, allenarsi e soffrire insieme”.
Ken Barlow è stato inserito nell’università di appartenenza, nel Tempio delle Celebrità. Venne con curiosità e scettiscismo a Milano, e l’anno dopo lo avevate contro, nel bis della finalissima di Coppa dei Campioni a Gand (Belgio).
“Esatto. Questa è stata la capacità di scegliere i giocatori dall’allenatore e dal general manager: giocatori di talento e motivati, con la voglia di emergere. Con il talento a beneficio della squadra. Saper fare il mercato è questo: conoscenza dei giocatori mondiali, non solo dal punto di vista tecnico ma anche umano. Chi viene dall’America non conosce, il nostro Basket, la nostra lingua. Servono giocatori che facciano tutt’uno con il gruppo che già esiste”.
Piero Montecchi e Rickey Brown vennero presi, quando andò al Maccabì Tel Aviv Barlow. Montecchi non aveva un compito facile, giocando come sostituto e cambio di D’Antoni, nel ruolo di Playmaker…
“Piero era un giocatore intelligente. Veniva da Reggio Emilia, era umile e lavorava bene. Cercava di imparare ogni giorno, da Mike. Brown era un’ala/pivot, tecnica e fisica. Buon tiratore, stoppatore, rimbalzista e tranquillo, perfetto per il nostro ambiente”.
Radio Cusano Campus è riuscita ad andare ancora una volta a canestro, con il più importante UOMO e CESTISTA, forse l’unico esemplare che gli Stati Uniti d’America hanno il rimpianto di non aver mai visto, da interno, sui loro dorati e planetari parquet. Basta il nome di battesimo: DINO. La STORIA, di questo stupendo SPORT.
L’intervista è stata raccolta dal radiocronista sportivo Giulio Dionisi