L’indecoroso spettacolo offerto dall’Assemblea della Camera dei deputati nella seduta di ieri 14 febbraio 2019 viene elegantemente definito dal Regolamento della Camera all’art. 61 «tumulto» e negli stessi termini si esprime il Regolamento del Senato all’art. 68.
È pur vero che ai parlamentari in carica non può venir ascritta una particolare responsabilità, poiché, com’è noto, accadimenti similari hanno contraddistinto anche le legislature precedenti; tuttavia, non ci si può esimere dal raccomandare a tutti gli attori politici maggior cautela nel confronto parlamentare, che, specie nella Camera bassa, può anche essere (e forse è un bene che sia) particolarmente acceso, ma non deve certo degradare nel «tumulto».
L’auspicio è che la complessiva attività parlamentare trovi miglior fortuna non solo (e soprattutto) in vista del bene del Paese, ma anche perché questa politica per prima contribuisce alla delegittimazione propria e dell’istituzione rappresentativa per antonomasia.
È opportuno precisare che le sanzioni disciplinari, che in tali frangenti al Presidente dell’Assemblea compete irrogare (articoli 59, 60, 61 R. C.; 66, 67, 68 R. S.), non sembrano integrare una limitazione alla espressione di opinioni o voti, comunque garantita dall’art.68, primo comma, Cost.; piuttosto va considerato che così come l’immunità è volta a proteggere la libera esplicazione delle funzioni parlamentari, allo stesso modo gli strumenti approntati per il mantenimento dell’ordine delle sedute sono diretti proprio a che l’esercizio di quelle funzioni non venga intralciato da deprecabili condotte ancorché tenute all’interno delle aule parlamentari.
I regolamenti parlamentari, inoltre, disciplinano anche il «fatto personale».
Si tratta delle ipotesi, regolate dagli articoli 42 R. C. e 87 R. S., nelle quali un parlamentare chiede la parola in quanto ritiene gli siano stati attribuiti opinioni non sue o fatti non veri ovvero sia stata in qualche modo censurata la sua condotta. Il Presidente dell’Assemblea decide se dare o meno la parola; tale decisione alla Camera è appellabile, ma non al Senato. Qualora si tratti di fatti così gravi da determinare un vulnus alla onorabilità del deputato o senatore, questi può chiedere che venga nominato, ai sensi degli articoli 58 R. C. o 88 R. S., il cosiddetto «giurì d’onore» con il compito di verificare se le accuse abbiano fondamento. Il «giurì d’onore» poi comunica le proprie conclusioni all’Assemblea, che può solamente prenderne atto.
Non mancano insomma gli strumenti interni perché il dibattito, anche serrato, possa svolgersi civilmente.
Va dato atto al Presidente della Camera per aver chiesto scusa per una sua prima reazione “a caldo” non in linea con il ruolo istituzionale ricoperto: sarebbe bene che tutti i membri del Parlamento prima di agire riflettessero sull’alto e nobile compito che la Nazione ha loro affidato.
Prof. Federico Girelli
Docente di diritto costituzionale
Università Niccolò Cusano